Attentato al Cloro Rosso

Non è nostra abitudine pubblicare comunicati stampa, ma data la gravità della situazione e la scarsità, ancora, di notizie, riteniamo opportuno farlo. Prima di tutto per esprimere tutta la solidarietà al ragazzo ferito, poi a tutti i compagni che in questo ultimo anno sono riusciti a mettere in piedi una perla di partecipazione in un territorio come quello di Taranto, squassato da crisi economiche che si susseguono e usato a mo’ di bambola gonfiabile dalle gerarchie militari, dai potentati industriali, dalle famiglie mafiose e dalla massoneria. Qual è il limite che li separa? Dove finisce un’organizzazione e inizia un’altra? Non è chiaro, per diversi motivi, ma i ragazzi del Cloro Rosso erano probabilmente riusciti ad infilarsi in quell’interstizio rimasto libero dalle brame padronali e hanno iniziato a spingere, sempre più, col rischio reale di creare qualcosa di nuovo, che potesse rompere con il passato e che portasse verso un futuro migliore. Per tutti. Questo, forse, avrà dato fastidio e l’incombenza della campagna elettorale ha reso necessario l’intervento armato, non tanto per punire, ma per spaventare e per far sottoporre a sequestro il centro sociale. Chi sono i mandanti? Forse basta vedere le facce appese al muro che promettono un futuro migliore, forse basta aprire i giornali e leggere le loro dichiarazioni su qualsiasi argomento. Forse basta guardarsi allo specchio…

Ecco il comunicato stampa di Franco Gentile, segretario provinciale del PRC

Comunicato stampa

A tutti gli organi di stampa

Il Partito della Rifondazione Comunista esprime la sua piena e convinta solidarietà ai compagni del Centro Sociale Cloro Rosso di Taranto vittime di un vile attentato di chiaro stampo mafioso.

Nella nottata appena trascorsa energumeni incappucciati hanno sparato all’interno del centro sociale ben sette colpi di pistola, tre dei colpi sono andati a segno ferendo un giovane compagno agli arti inferiori, per una pura casualità è stata sfiorata la strage.

La malavita del posto ha ottenuto il suo scopo, far chiudere il centro sociale (sottoposto a sequestro giudiziario) che nella sua attività di recupero sociale e culturale del quartiere è diventato chiaramente un ostacolo alle attività illecite.

Ora bisogna dire basta. Da mesi è in atto un pressing a tenaglia contro le attività del centro sociale da parte di forze politiche di destra ma anche di settori moderati e “benpensanti”, frange di istituzioni e della stragrande maggioranza della stampa “borghese” che oggi spero abbiano la decenza di provare un minimo di vergogna per l’opera di diffamazione costante nei confronti delle attività del centro.

Ora siamo alla quadratura del cerchio: la diffamazione continua e costante si è saldata con la malavita ed il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Diciamo la verità il centro sociale dà fastidio perché è in grado di mobilitare migliaia di giovani a salvaguardia della salubrità dell’ambiente, nelle lotte a difesa del lavoro o contro il carovita, nella narrazione e costruzione di un pensiero libero ed alternativo per questo va soppresso con le buone (facendolo chiudere aggrappandosi a cavilli giuridici) o con le cattive (attraverso attentati in stile mafioso).

Rifondazione Comunista auspica una rapida ripresa delle attività del centro sociale ed invita tutte le forze politiche/sociali democratiche e popolari e le istituzioni ad una mobilitazione generale a difesa della democrazia, della legalità e del Cloro Rosso che in questi mesi si è dimostrato autentico baluardo di questi valori.

FRANCO GENTILE segretario prov. Prc

L’impossibilità di essere informati: le gaffe di Berlusconi tra le macerie d’Abruzzo

Secondo il New York Times, Berlusconi in Abruzzo ha sparato gaffe a raffica. In Italia si è saputo solo che il Premier ha consigliato ai senzatetto aquilani di considerare lo stile di vita tipo profugo come se fosse un weekend al campeggio. I quotidiani italiani hanno riportato la notizia perchè era sulle prime pagine dei giornali esteri. Cazzeggiando su internet, sul sito del New York Times, si scopre che le gaffe ammontano a tre nella stessa giornata. Secondo il più diffuso quotidiano americano, la più grave è quella nei confronti di un volontario della Croce Rossa di origine africana, un prete a quanto pare, a cui ha detto: «Hai un’abbronzatura niente male. Vorrei stare io qui e prendere un po’ di sole…». Poi, accortosi dell’idiozia ha cercato di rimediare abbracciandolo: «Stringimi forte e chiamami Papa».

Il secondo episodio che riporta il NYT, è successo all’inizio della stessa settimana. Il premier ha incontrato un medico donna, Fabiola Carrieri dicono alcune cronache e le ha detto: «Come vorrei essere resuscitato da lei».

A questo punto rimane il dubbio del perchè per arrivare a sapere di questo devo fare una triangolazione spaziale tra Martina Franca e New York e poi dover tradurre tutto. Naturalmente la notizia è stata riportata dal sito italiano www.italiadallestero.info. E basta.

Sono sciocchezze, d’accordo, l’ennesima prova da biricchino di un buontempone che casualmente è l’uomo più potente d’Italia. E la stampa italiana non ne parla forse perchè è abituata, non ci fa caso, perchè altrimenti dovrebbe riportare anche le battute del Bagaglino, o magari si vergogna a scrivere del Primo Ministro e dire queste cose. Ma questo fa riflettere anche sullo stato dell’informazione, di ciò che non passa e di ciò che passa, di quello che accade accanto a noi e non sappiamo. Come si fa a fidarsi di un’informazione a metà che dipinge Berlusconi, anche quando lo attacca, come qualcuno che va e risolve, mentre è palese l’incapacità da parte del Governo di provvedere ad alcunchè tranne che nelle zone in cui sono presenti le telecamere? Dell’Abruzzo non sappiamo nulla, nessuno dice nulla di sensato, alcune domande rimangono senza risposta:

1) Gli abitanti conoscevano le procedure di sicurezza da applicare in caso di terremoto. Questo fa pensare al fatto che erano preparati, che qualcuno avesse detto loro che poteva accadere.

2)La  mattina del lunedì, intorno alle 7:00 si vedevano sul posto solo giornalisti, nessun soccorritore. Come hanno fatto ad arrivare prima le televisioni e poi i pompieri? Durante la notte di domenica, dov’era la Protezione Civile?

3)Gli sfollati: chi è andato in albergo? Chi in tenda? Ci sono alcuni che non hanno trovato posto?

4)Gli immigrati irregolari, non registrati da nessuna parte, dove sono? Che fanno?

Il buon affare dei misteriosi africani di Martina Franca

Questo articolo è stato pubblicato sull’Almanacco Clandestino di Carta il 10 Aprile 2009. Tre giorni dopo, a Pasqua, sulla Gazzetta del Mezzogiorno esce un interessante reportage sulla stessa vicenda, ma dai toni nettamente diversi.

Riteniamo importante segnalare che da quando l’articolo è stato redatto a quando è stato pubblicato la Croce Rossa si è fatta carico del documento di viaggio.

Ecco l’articolo di Carta

Quando arrivarono a Martina, ognuno aveva le proprie teorie su chi potessero essere. Alcuni dicevano fossero dei giocatori stranieri venuti in trasferta, per il calcio o per la pallavolo. Altri dicevano fossero turisti oppure studenti in gita. Nessuno aveva un’idea precisa: sarà perché erano vestiti uguali, sarà perché erano per la maggior parte giovanissimi oppure sarà stato perché le amministrazioni non hanno fatto nessun cenno alla cittadinanza riguardo questa novità. Ad un certo punto di fine ottobre ci siamo trovati in casa cento ragazzi spaesati che non sapevano dove fossero, in mezzo a persone che non sapevano chi fossero. L’unica certezza era che alloggiavano presso l’Hotel Dell’Erba, struttura alberghiera a tre stelle, che di solito ospitava congressi e qualche turista di passaggio. Attraverso i giornali si è scoperto che, a causa dell’ingente numero di sbarchi a Lampedusa, i posti nei centri di accoglienza erano terminati e il Governo, tramite le Prefetture, aveva stretto accordi con strutture private per ospitare i richiedenti asilo. In provincia di Taranto, Federalberghi aveva messo a disposizione due strutture, una a Castellaneta Marina e una, il Dell’Erba, a Martina Franca, la prima gestita dalla Caritas e la seconda dalla Croce Rossa.

La presenza dei cento africani a Martina Franca non si fa notare, fino a quando a metà dicembre il gruppo degli eritrei non organizza una manifestazione spontanea in piazza, con cartelli scritti in un italiano approssimativo, in cui chiedevano la possibilità di avere un «pocket money», oppure schede telefoniche e sigarette e, soprattutto, notizie riguardanti la loro richiesta di asilo.

La manifestazione dura pochi minuti, il tempo che intervengano le volanti della polizia per scortarli poi nell’albergo. La notizia si sparge e in breve viene convocata una conferenza stampa all’interno del centro per chiarire che le cose vanno nel migliore dei modi, e che la manifestazione è stata causata dalla pretesa degli ospiti di ottenere cose che non spettano loro. Chi parla è Domenico Maria Amalfitano, presidente del comitato provinciale tarantino della Croce Rossa, ex parlamentare DC, che spiega che la presenza e i servizi ai richiedenti asilo presso il centro di Martina Franca, sono regolati da una convenzione tra la Croce Rossa e la Prefettura di Taranto, che l’hotel è temporaneamente trasformato in Centro di Accoglienza per i Richiedenti Asilo [CARA] e che si stanno muovendo per dare agli ospiti tutto quello che serve perché possano sentirsi accolti. La prima cosa è l’assistenza sanitaria, attraverso una convenzione con la ASL. Nonostante la legge italiana lo preveda a prescindere. Tutt’apposto dunque, ci assicura il presidente, la protesta – secondo lui – nasce da un’incomprensione da parte dei ragazzi che pretendono cose che non sono previste dalla convenzione.

Questa parola, “convenzione”, in questa storia riemerge sempre più a sostituire il termine “legge”: i servizi sono offerti secondo la “convenzione”, i corsi di italiano sono fatti perché lo prevede la “convenzione”, i vestiti sono acquistati in base alla “convenzione”. Nessuno parla di legge, ma di un accordo di cui è difficilissimo entrare in possesso, magari solo di sfuggita per una rapida occhiata, giusto per capire quali sono i diritti degli «ospiti» dell’albergo. L’unica cosa che si comprende è che tutto quello che sta accadendo è di natura straordinaria ed emergenziale, ma anche che traccia un orizzonte di cambiamento nel sistema dell’accoglienza dei migranti.

Secondo i dati forniti dall’Anci nel dicembre dello scorso anno, i richiedenti asilo in Italia nel 2008 erano quasi 27 mila, triplicati rispetto a tre anni prima. Questo significa che il sistema di protezione ed inclusione che comprende i centri di prima e di seconda accoglienza, i centri di accoglienza per richiedenti asilo (C.A.R.A.), tutto il sistema dello S.P.R.A.R., non è sufficiente a rispondere all’incremento della domanda. Per questo, con il decreto del 12 settembre 2008, il Ministero dell’Interno estende lo stato di emergenza per l’eccezionale afflusso di migranti a tutto il territorio nazionale e, attraverso un’attenta ricerca sul territorio, individua circa 60 strutture da destinare a centri di accoglienza per un totale di 10.488 posti, tra cui Martina Franca e Castellaneta Marina. Nella maggior parte dei casi, questi centri sono strutture alberghiere messe a disposizione dalla categoria e dati in gestione a enti ecclesiastici e laici. Il provvedimento non è un’improvvisazione, ma sembra il rispolvero di un progetto del 1999 chiamato “Azione comune”, che aveva come capofila il CIR e come partner, tra gli altri, ACLI, Caritas, CTM – Movimondo, CISL, UIL, come finanziatori la Commissione Europea e il Ministero dell’Interno, e come obiettivo l’accoglienza dei richiedenti asilo che facevano richiesta nel nostro paese. All’epoca i numeri non erano quelli di oggi e l’esperienza di accoglienza non era ancora strutturata. Il progetto prevedeva l’accoglienza in piccoli o medi centri, assistenza sanitaria e consulenza psicologica e sociale. Proprio quello che accade nell’albergo. Ma se il progetto “Azione comune” si è poi evoluto nel sistema S.P.R.A.R., l’ordinanza del Presidente del Consiglio del 12 settembre rappresenta un evidente passo indietro.

Ad ascoltare le opinioni dei ragazzi ospitati, le mancanze da parte dell’ente gestore sono evidenti. «Non siamo animali», ci dice uno di loro, «non abbiamo bisogno solo di mangiare e di dormire». Altri invece sono convinti che la Croce Rossa si metta in tasca tutti i soldi che invece spetterebbero agli ospiti. Una convinzione scaturita dal fatto che i richiedenti asilo ospitati a Martina Franca hanno potuto comparare la loro condizione con le esperienze pregresse di amici o parenti già presenti in Italia. Non solo dormire e mangiare: «I nostri diritti sono altri», ci continua a dire il ragazzo con cui parliamo, «vogliamo sapere a che punto è la nostra pratica presso la commissione, parlare con persone esperte. Se chiediamo alla Croce Rossa, l’unica risposta è:non lo so».

Dice Enzo Pilò, dell’associazione Babele di Grottaglie, che gestisce il progetto per la rete SPRAR “Passi di donna”, che ha verificato più volte le condizioni del centro di Martina, che la mancanza più evidente è rispetto all’informazione legale: i ragazzi non sanno nulla di quello che chiederà loro la commissione territoriale, che documenti avranno, cosa prevede la legge italiana, e soprattutto non sanno che fine faranno. La Croce Rossa sostiene che l’informativa legale è stata fatta, e che un avvocato sta anche seguendo le pratiche dei ricorsi ai dinieghi. Che tipo però di informazione non lo dice, ma può essere ricostruito quanto accade confrontando ciò che dice la convenzione e quello che è stato fatto. Il documento firmato dalla Prefettura e dall’ente gestore prevede che, a parte i bisogni fondamentali, l’ente preveda anche all’assistenza sanitaria, psicologica, sociale e legale e soprattutto ad un servizio di mediazione culturale. Cosa che effettivamente avviene all’interno del centro, ma tutto fatto dai volontari della Croce Rossa e non da personale esperto o qualificato. Una ragazza che parla inglese diventa la mediatrice e un volontario che è avvocato spiega la legge sull’asilo. Una legge che dovrebbe essere distribuita all’arrivo nel centro in almeno cinque lingue diverse e che invece i ragazzi hanno avuto solo in italiano: «Ho avuto questo», ci dice un ragazzo eritreo indicando il malloppo della legge italiana sull’asilo , «ma non so cosa sia».

Dalla convenzione si evince che la spesa giornaliera per ciascun ospite è di circa cinquanta euro, qualcosa in più rispetto allo standard dei centri di accoglienza. Con questa somma l’ente dovrebbe pagare la struttura che ospita, i servizi minimi e quelli previsti dalla convenzione. L’uso del denaro però, è molto discrezionale, sulla convenzione non c’è nessun riferimento a quanto spendere per quale tipo di servizio. L’unica cosa certa è che l’Hotel Dell’Erba è molto caro ma, a quanto afferma la dottoressa Distani, capo di gabinetto della Prefettura tarantina, l’urgenza con cui il ministero ha chiesto di trovare le strutture adatte, non ha lasciato scelta. Per il resto c’è una totale libertà, con l’obbligo però della rendicontazione. Di questo ne siamo certi perché la Caritas di una parrocchia locale, si era proposta di procurare ai richiedenti dei vestiti. La risposta della Croce Rossa è stata che o erano nuovi oppure sigillati, altrimenti niente. A seguito della protesta di dicembre, a cui poi ne è seguita un’altra, dopo poco più di dieci giorni, per gli stessi motivi, la Croce Rossa ha deciso di dare piccole somme di denaro a ciascuno degli ospiti. A Natale hanno avuto quindici euro, un regalo che di tanto in tanto, senza una scadenza fissa, si ripete.

La situazione di precarietà ha prodotto delle reazioni da parte dei richiedenti asilo. A parte le manifestazioni, alcuni di loro si possono vedere in giro a Martina a fare la colletta per le sigarette, a cercare di ottenere informazioni, oppure un lavoro. In maniera diversa, anche a seconda della nazionalità, molti si sono arrangiati. Alcuni dei ragazzi del Bangladesh hanno trovato lavoro presso i fruttivendoli ambulanti, qualcuno invece vende ombrelli o borse per strada. Sull’argomento, le parole del responsabile per la Croce Rossa del centro, che ama presentarsi come colonnello Calò, sono emblematiche: “Questo è un buon ammortizzatore sociale”. Nel frattempo però alcuni di loro hanno ottenuto il riconoscimento, chi di rifugiato chi invece l’asilo politico. Il passo successivo è quello dei documenti, di cui uno fondamentale: il documento di viaggio. Esso sostituisce il passaporto e permette loro di viaggiare. Per averlo però bisogna sborsare una cifra, tra fotografie, bolli e bollettini, di più di sessanta euro. Denaro di cui è difficile che i rifugiati siano in possesso. A questo punto, secondo la prassi, l’ente gestore del centro, si accolla le spese e si prodiga a fornire informazioni. A Martina questo non è accaduto, ed è il colonnello Calò a dare una spiegazione: “Mica questa è un’agenzia di viaggio”. Per le tasse sul permesso di soggiorno invece, solo l’intervento della Prefettura ha fatto sì che fossero accollate all’ente gestore.

Poi ci sono le informazioni. La Croce Rossa sostiene di aver svolto appieno il ruolo, dichiarandosi sempre pronta a fornire agli ospiti spiegazioni e consigli. A parte la buona volontà dei volontari, questo però non spiega come mai i richiedenti asilo si sono presentati in tutti gli uffici di Martina a chiedere cosa si fa, come si fa e quando si fa, rispetto alle pratiche di richiesta di permesso di soggiorno. Sono stati più volte alla Cgil, che si è attivata prontamente, poi alla Cisl. Infine hanno trovato in un’ispettrice di polizia, che li ha presi in simpatia, una porta sempre aperta per tutte le notizie necessarie. Ma non basta. E questo lo si vede appena si arriva davanti al cancello che separa il CARA dal resto del mondo. Si crea un capannello immediato di gente che in un inglese con diverse sfumature chiede notizie, informazioni, rassicurazioni.

La convenzione è stata rinnovata di altri due mesi. Fino al 31 maggio. Poi nessuno sa che cosa accadrà, dato che i centri di seconda accoglienza sono pieni. Nessuno sa fornire una risposta, non la Prefettura che aspetta notizie dal Ministero, non la Croce Rossa che aspetta notizie dalla Prefettura. Di certo rimane che l’esperienza è stata tanto «bella» che Amalfitano pare sia in cerca nel territorio di Taranto di una struttura da trasformare in un centro di accoglienza professionale.

“Giù le mani dall’asino di Martina Franca”

Grande scalpore hanno suscitato le vicende dei quasi duecento asini custoditi a Masseria Russoli, ma forse ci sono altri interessi dietro tanta premura equina

La maestra delle elementari ci faceva tagliare del cartoncino e con questo facevamo un cono e due orecchie lunghe da appiccicare sopra. Era il cappello del ciuco, dell’asino, che si doveva mettere in testa l’ultimo della classe. Non è un bel ricordo, risveglia antichi timori, quello di non essere adeguato, pronto, intelligente. Vedendo gli asini della masseria Russoli, in una soleggiata mattinata di marzo, sono stati questi i primi pensieri venuti in mente. Guardare questi animali che da settimane hanno scatenato un’accesa bagarre politica a Martina Franca, con il coinvolgimento nientepopodimenochè di Striscia la Notizia, mi ha fatto pensare ai tempi della scuola, in cui essere “ciuccio” era un problema. Ora invece su internet e sui giornali, si fa a gara per dimostrare chi è più amico dell’orecchiuto animale.

Quello che sta accadendo, in sintesi, è che il centro di salvaguardia dell’asino martinese, presso la masseria Russoli, non si capisce da chi deve essere gestito, la Regione pare faccia orecchie da mercante e intorno iniziano a girare i soliti avvoltoi pronti a cibarsi dei cadaveri. Nel 2005 la Giunta Regionale decide di non rinnovare la convenzione che da dieci anni dava al Corpo Forestale la gestione della struttura. Durante questo tempo la Forestale affidava il controllo e la cura degli animali a una coppia di custodi e ad alcuni operai. Essi garantivano che tutto si svolgesse per il meglio e la Forestale nel frattempo provvedeva ai lavori di restauri e di mantenimento della struttura. Nel 2007 scade l’ultima convenzione, gli operai tornano a casa e alla masseria rimane solo la coppia di custodi, che nel centro, appunto, abitava. La Regione decide allora di dare al Centro Incremento Ippico di Foggia la cura della Masseria, ma non si esprime sulle sorti dei due custodi che, per legge, sarebbero dovuti passare automaticamente alla cooperativa di Foggia. Questo stava per accadere, se non fosse che, il signor Marangi, in attesa di risposte dalla Regione, si era rivolto all’avvocato Terrulli, che gli aveva consigliato di non accettare la proposta di assunzione, seppur di tre mesi, fatta dalla cooperativa. Quindi scoppia il caso: l’avvocato chiama i giornalisti, che giustamente si avventano sull’osso riportando quanto stava accadendo. Insieme a loro si avvicina al caso, paladino di giustizia, il consigliere comunale Paolo D’Arcangelo, facendo sua la questione. Viene tirata in ballo la Regione che, senza alcun rimorso, preferisce far morire gli asini invece che occuparsi della faccenda. Nel frattempo i due operai che lavoravano lì hanno perso il posto e il custode e la moglie rischiano di essere sfrattati e, come a suggellare il momento di crisi della questione, un asino decide di morire impantanato nel fango. In un’interrogazione consiliare fatta da Nino Marmo di AN, l’assessore Russo risponde che l’asino sia morto di vecchiaia, mentre secondo i veterinari è morto di polmonite causata dal grande freddo che faceva in quel periodo. Non solo, ma l’assessore dice che la vicenda è stata montata ad arte. La domanda è da chi e per quale motivo.

Se lasciamo un attimo da parte la strumentalizzazione politica da parte di qualche consigliere comunale, la vicenda appare abbastanza ingarbugliata: la masseria fa gola a molti e che la Regione si riservi il ruolo di gestirla crea problemi. Senza nulla togliere alla vicenda in sé, cioè che la mancanza di manodopera mette a dura prova l’esistenza della comunità asinina, gestire un posto del genere significa poter accedere a una quota cospicua di soldi pubblici. Nel frattempo, a parte il gruppo nato su Facebook che domenica organizza in piazza una raccolta firme per chiedere, in soldoni, che la gestione della masseria passi dal pubblico al privato, su internet ci sono alcuni forum tematici in cui ci sono notizie più concrete. In una dichiarazione rilasciata da D’Arcangelo a Cronache Martinesi, si legge che sarebbe stato meglio affidare Russoli e gli asini a chi non avrebbe permesso loro il deperimento. Interpellato sull’argomento, dice di non avere nessuno di preciso in mente, ma che sarebbe meglio una società privata. I nomi possiamo provare a farli noi: il primo è Onos, una società con sede a Palagiano che si occupa di commercio di latte di asina, con cui, nel 2007 il comune di Crispiano aveva stipulato un protocollo di intesa per un non specificato programma di interesse collettivo alla masseria Russoli. Il secondo nome è quello dell’ Associazione Nazionale Allevatori del Cavallo delle Murge e dell’Asino di Martina Franca, che si dice disposta ad appropriarsi del centro e che, fondamentalmente, la gestione che avveniva fino a pochi anni fa era migliore: gli allevatori avevano in comodato d’uso le fattrici e poi potevano tenersi i puledri. Se proviamo a tirare le fila della vicenda abbiamo da un lato una comunità di asini che non può essere gestita da due sole persone e dall’altro invece alcuni avvoltoi pronti a cibarsi dell’osso. Ma per farlo, la Regione deve farsi da parte, deve essere spinta a lasciare. In questo interviene la stampa e Striscia la Notizia, che non fa altro che alzare il polverone, per nascondere meglio il volo degli avvoltoi che si fa sempre più basso che, naturalmente, non hanno alcun interesse ad inimicarsi l’ente pubblico. A questo punto, ci chiediamo, a chi si riferisca realmente il nome del gruppo nato su Facebook “Giù le mani dall’asino di Martina Franca”.

Arrivati alla masseria, un gruppo dei 181 asini ospiti, pascolavano placidamente nell’erba tagliata di fresco, alcuni stesi a sonnecchiare e altri invece a mangiare i germogli degli ulivi. Alla vista del cronista e della macchina fotografica, sono scappati impauriti, segno questo che tutto l’interesse suscitato dalla vicenda, li ha infastiditi un po’.

Vivere con duecento euro al mese

Intervista a Teresa Palmisano, disoccupata da tre anni, che prende carta e penna e scrive ai giornali

È arrabbiata Teresa. Stanca delle pratiche che si bloccano negli uffici, dei tempi che si allungano, della tranquillità perduta. Teresa Palmisano è un’operaia impiegata nel tessile di Martina Franca, il marito lavora in un impresa edile. Entrambi licenziati, lei da tra anni ormai, lui da novembre. Ha usufruito degli ammortizzatori sociali previsti, la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ora aspetta la cassa in deroga, quella garantita dalla Regione, dato che quella statale si è esaurita.

È l’ennesima vittima di quella crisi del settore tessile che sta lentamente erodendo tutto il tessuto produttivo martinese, arrivando al licenziamento di più di metà degli addetti. La crisi del settore viene moltiplicata per la crisi sistemica che sta colpendo il credito, le banche. Non essendo un periodo roseo e non potendo rischiare, queste sono restie a prestare denaro alle aziende per gli anticipi sulle commesse. Le ditte, soprattutto le più piccole, le contoterziste, chiudono per sempre. Nel frattempo in città tutto scorre come se nulla fosse, ma il fiume pestifero di disoccupazione ha la fonte molto in alto (la ditta di Teresa, la Fides, ha licenziato 37 dipendenti tre anni fa) e non se ne intravede la foce.

La settimana scorsa, Teresa prende carta e penna e scrive una lettera ai giornali, per raccontare quello che sta accadendo. La incontriamo alla Camera del Lavoro di Martina Franca, dove ogni giorno aiuta gli altri come lei a sbrigare pratiche.

Cosa ti ha spinto a scrivere?

L’impossibilità di tenermi tutto dentro, la rabbia di vivere questa situazione, l’impossibilità di risolvere. Non sono una che si lamenta, non racconto la mia esperienza a tutti. Non so cosa mi sia preso, ma ad un certo punto non ce l’ho fatta più.

Rabbia contro chi, contro cosa?

Contro la situazione, l’impossibilità di vivere normalmente, contro il Governo, che sembra consideri me e quelli nella mia stessa condizione come ferri vecchi da buttare, da mettere da parte. Mi sento messa da parte, di non poter fare nulla. Sono arrabbiata con gli uffici che bloccano le pratiche, con la lentezza dell’Inps. L’altro giorno sono andata all’Inps, all’ufficio di Martina, per chiedere notizie sulla pratica della mia cassa in deroga. L’impiegato mi ha risposto che dipende dall’azienda, e non da loro. Bene, ho dovuto spiegare all’impiegato dell’Inps di Martina come funziona: una pratica del genere è di competenza loro e non dell’azienda. Poi ce l’ho con chi nonostante è in cassa integrazione, chi ha l’assegno di disoccupazione, lavora a nero. Con i pensionati che lavorano a nero.

Dove lavorano a nero?

In alcune aziende, che preferiscono avere manodopera non regolare. Tante delle mie ex colleghe lavorano, anche se sono in cassa integrazione. Mi chiedo se sia giusto che uno abbia il doppio stipendio e noi in casa nemmeno uno.

Cosa succede in casa tua?

Io prendevo mille euro di cassa integrazione straordinaria, che si è bloccata a novembre. E il 15 di quel mese mio marito ha perso il lavoro. Lui guadagnava ottocento euro e, tolti i trecento di affitto, riuscivamo a vivere bene, mantenendo una figlia di dodici e una di sei anni. Ma ora niente. Da novembre in casa nostra non entra una lira. E tutto si sta rompendo, non c’è più tranquillità. Con mio marito, con mia figlia grande che non capisce cosa sta accadendo e non vuole sentirsi diversa dalle sue amiche. Gli unici soldi che entrano sono quelli che guadagno arrangiandomi a fare le pulizie. Cento euro ogni due settimane.

Come si fa a vivere con duecento euro al mese?

Ci arrangiamo. Io faccio tutto in casa. Con cinquanta centesimi di farina faccio tre chili di pane. La salsa per la pasta la faccio io, macinando i pomodori. Cerco di andare il meno possibile al supermercato. Naturalmente abbiamo rinunciato ad uscire la sera, e quando vado al mercato vado solo per guardare…

Nonostante tutto però passi molto tempo al sindacato.

Già, mi fa pensare di meno a quello che mi aspetta a casa. Poi mi piace imparare, soprattutto quello che riguarda il lavoro, per evitare di essere presa in giro. Così mi metto a disposizione di chi come me viene dallo stesso settore e mi chiede una mano.

Cosa ti aspetti, cosa vorresti che accadesse?

Sono sicura di non essere l’unica in queste condizioni, ce ne sono tanti come me e tante famiglie che sono costrette ad indebitarsi per pagare le bollette, l’affitto. Non è possibile che non si faccia niente, che non si lotti per uscire dalla situazione. Non c’è bisogno dell’elemosina, non ne voglio. Due settimane fa sono andata dal sindaco per parlargli della mia situazione. Non volevo un aiuto economico, ma che partecipasse con noi alla nostra lotta, che prendesse a cuore la situazione di tutti quelli come me. Ma forse non ha capito: ha promesso di trovarmi lavoro…

il Comune di Pandora

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La notizia arriva in una domenica mattina nevosa. Petrucci, Tommasino e Conserva “u lueng”, ex sindaco di Martina, sono stati indagati dalla Procura di Potenza per vari reati “non necessariamente correlati tra loro”, peculato, corruzione. In particolare, l’articolo di Diliberto di ieri su Repubblica metteva in luce una cosa già nota ai più attenti: il lavoro di certosino smistamento delle denunce che arrivavano sui tavoli della Procura. Di questo se ne aveva già sentore quando ci si interrogava sul motivo per cui alcune istanze andassero avanti e altre no. In particolare come mai con tutto quello che accade al comune di Martina, tra tangenti et similia, nessuno sia mai intervenuto. Noi che in questo paese ci abitiamo, subiamo ogni volta i ricatti da parte di quella comitiva di pagliacci che occupa i nodi cardini dell’amministrazione burocratica martinese. Se vogliamo aprire un negozio, fare un concerto, chiedere una carta, un documento qualsiasi, diventa sempre un’impresa, un’avventura. Le normali funzioni dell’amministrazione, o meglio, della burocrazia che non dovrebbe avere nessun tipo di colore nè di appartenenza, diventano privilegi, favori, a cui poi, naturalmente bisogna corrispondere. Non esiste un regolamento che tenga, le cose si fanno o no, solo se convengono alla cricca di pagliacci che tiene in piedi la barracca. Con questo modo di fare, si legano gli uni agli altri in doppi fili di ricattabilità, di malafede. L’inchiesta della Procura di Potenza va a colpire uno dei tanti aspetti del cancro locale, uno dei sintomi più evidenti, ma non l’unico. Quello che accadrà è già scritto, è già visto: chi è stato colpito accetterà di buon grado che intorno a lui si faccia terra bruciata, che gli amici si nascondano o spariscono, temporaneamente, giusto il tempo di far calmare le acque. Poi tutto tornerà come prima. Perchè quello che è stato colpito è solo il livello politico, quello con una faccia e un nome, quello che, nel bene o nel male, ci mette la faccia. In questo modo è sempre quello più esposto, quello immediatamente riconoscibile nel bene o nel male. Ed infatti è sempre quello che ne paga le spese. Come in questo caso.

Ma se si cerca una prospettiva che esuli un attimo dalla rabbia, è palese che a Martina tutto c’è fuorchè un livello politico. Partendo da sinistra ed arrivando a destra è tutto un correre verso il centro, come se l’arena politica fosse una coppa di insalata. Ma il centro non corrisponde necessariamente ad idee democristriane, ma alla confusione pura, una corsa all’omologazione che ha come leit motiv il qualunquistico pensiero che la gente vota chi è più uguale. In base a questa legge idiota, tutti cercano posto dalle parti del centro, per essere più mimetizzati e, all’occorrenza, utilizzabili. Se si analizza la questione da un punto di vista politico. A Martina concorrono altri fattori invece. Primaditutto è utile dire che la scelta elettorale non è legata, nella maggior parte dei casi, a scelte politiche ma a forzature, a ricatti spesso occupazionali. Perchè tutti hanno un figlio da sistemare, un nipote da sposare, una rimessa da ristrutturare, tutti hanno motivo per essere ricattati, utilizzabili, ognuno è un voto e ogni dieci voti è mezzo favore.

Per questo è necessario che il livello politico sia debole, incopentente, possibilmente ricattabile tanto o di più dei singoli cittadini. I consiglieri candidati sono spesso persone costrette a mettersi in lista, e ogni posto in lista ha un prezzo. Naturalmente il loro potere reale, una volta eletti, sarà nullo, perchè avranno da ringraziare altri, da ricambiare altri favori. Quello che è importante, a Martina, è la continuità del potere. I candidati consiglieri, se si va a vedere la loro attività prima di mettersi in politica, hanno sempre il bisogno di un permesso, di un’autorizzazione, di una carta. Tutti possono, o devono, essere bravi ai diktat che arrivano dall’ufficio in fondo. Ed è l’ufficio in fondo il problema, quello che non viene toccato dalla indagini, quello che non deve essere eletto, quello che non deve mettere la propria faccia.

In un sistema che si regge sui favori, sui privilegi, sulla trasformazione della normale amministrazione in qualcosa di particolare, fatto ad personam, gli aggettivi si sprecherebbero e le analisi direbbero che il Palazzo Ducale è sede di una cupola mafiosa, per gli atteggiamenti e i modi di fare. Certo non si spara, non si uccide, ma le richieste dei cittadini che scelgono di non sottostare al Feudatario dell’ufficio in fondo vengono sciolte nell’acido del dimenticatoio, dei cavilli legislativi a cui non si può chiudere nessun occhio.

L’inchiesta della Procura di Potenza potrebbe essere l’inizio di un cambiamento, se sfruttata bene da quella parte di società trasversale, stufa di essere marionetta o burattino, stufa di feudi e di favori, di cortesie criminali di consorterie manco tanto occulte. Ma non accadrà. Gli organi di informazione non ne parleranno, perchè gli inserzionisti non pagherebbero la pubblicità, perchè non cambierebbe niente. Chi chiederà di andare a fondo sarà zittito, isolato, messo da parte.  I cittadini faranno finta di dimenticare, ma perderanno ancora una volta la fiducia nel sistema e non pochi di loro spereranno in un lider forte che tutto risolva. Quelli dell’ufficio in fondo faranno i buoni per un po’, per poi iniziare di nuovo a dividersi la città.

Questo è il comune di Pandora, chi avrà la curiosità di aprire il vaso?

Chi ci guadagna dalla campagna sulla sicurezza

La campagna per la sicurezza messa in piedi da Berlusconi e i suoi accoliti, a prima vista sembra una chiara dimostrazione dell’indole neofascista del Governo, che indica, in un momento di crisi strutturale del sistema capitalista, come “untore” o causa del Male assoluto, l’Altro, l’immigrato, diverso da noi perchè vittima del proprio istinto animalesco a violare, fare del male, ma a ben guardare, non è nient’altro che un altro esempio della terribile propaganda di cui siamo vittime. Questa campagna, che può sembrare razzista ad un primo sguardo, ma che cela risvolti ancora più inquietanti che di seguito spiegheremo, è supportata da un sistema mediatico disinformativo che addirittura, come fa il Corriere della Sera tramite una delle sue penne di punta, indica nello stupro l’atto rituale attraverso cui gli Invasori, gli immigrati, dimostrano a noi (noi chi?) di aver conquistato la Patria. Evitando giudizi di merito sul concetto di Nazione, Patria, la cui a-storicità e a-scientificità riempirebbero troppe pagine, vorremmo soffermare la nostra attenzione su chi e cosa trae giovamento da questa campagna disumana. Il razzismo è una buona scusa per racchiudere alcune scelte berlusconiane, e leggere alcuni eventi in questa chiave è legittimato dalla presenza nella compagine governativa di gruppi di bovari nordici saliti al rango di deputati, ma il razzismo è un modo per solleticare la fantasia popolare e dare in pasto al suo giudizio colpevoli immediatamente riconoscibili di pesanti disagi. Se il lavoro è merce rara, secondo la formula razzista, è colpa dell’africano che lo ruba, e non perchè l’africano senza documenti e quindi senza diritti, costa meno e rende di più in termini di ricavo da parte del padrone. Il costo del lavoro è il centro della questione: se il capitale si sposta verso luoghi in cui il costo del lavoro è basso o bassissimo, i lavoratori si spostano verso luoghi in cui il costo del lavoro è più alto: gli imprenditori italiani aprono fabbriche in Romania, i lavoratori rumeni cercano lavoro in Italia. Con l’entrata della Romania nell’UE e quindi in Shengen, i lavoratori rumeni hanno avuto libertà di movimento nei paesi dell’Europa occidentale e quindi la possibilità di cercare lavoro senza la necessità di un permesso di soggiorno. Questo, è ovvio, ha svuotato di braccia la Romania e ha creato problemi ai vari imprenditori alla ricerca di manodopera a basso costo. In questa differenza tra offerta e domanda di lavoro, si inserisce la campagna mediatica contro “lo stupratore rumeno”, che non è altro che un modo per ovviare Shengen attraverso la criminalizzazione di un gruppo di individui, il cui lavoro costa di meno in patria che non in Italia. A supporto di questa tesi, ecco un passaggio dell’articolo pubblicato sulla rivista di Confindustria “L’imprenditore” di aprile dello scorso anno, in cui si intervista Marco Tempestini, presidente di Unimpresa Romania. Alla domanda dell’intervistatore: Che mercato offre la Romania agli imprenditori italiani?, Tempestini risponde, dopo aver elencato un alto numero di vantaggi, soprattutto dal punto di vista del costo del lavoro ([…] un costo della manodopera sicuramente in aumento, ma a livelli ancora bassissimi, rispetto a quelli dei paesi europei […]), parla di un “rovescio della medaglia” : “la propensione all’emigrazione sta depauperando le risorse umane a disposizione delle aziende[…]“.

Dal Jazz non si torna indietro

Intervista a Pasquale Mega e Camillo Pace alla ricerca del significato della musica (jazz)

pubblicata su Extramagazine n. 6 del 13/02/2009


Per essere un lunedì mattina freddo e piovigginoso di febbraio, l’atmosfera sembrava più adatta al blues che al jazz. Pasquale Mega e Camillo Pace li incontriamo per parlare di musica, di “Coloriade”, dell’album che Pasquale ha scritto e che è stato pubblicato nell’estate del 2007 dall’etichetta Dodicilune di Lecce. La conversazione ha preso fin dall’inizio una piega incontrollabile, dato che il leit-motiv è stata la ricerca di una definizione appropriata del concetto di jazz. Tra una domanda e il caffè e la risposta e la foto e un’altra domanda, a qualcuno veniva in mente l’intuizione, il lampo di genio, la metafora migliore per spiegare cosa fosse quel tipo di musica che suona così, jazz.

Perché Coloriade?

Mega – Così, è stata una cosa improvvisa, un’intuizione di un attimo. Non significa nulla, non esiste in nessuna lingua al mondo, ma riesce bene a dare un’idea dell’album. I brani sono stati composti in un lungo arco di tempo, non è stata un’idea unica. Il punto centrale è la presenza degli archi, non consueti nelle formazioni jazz.

Pace – Pasquale è stato il primo in Puglia ad usarli. È stata un’intuizione che adesso viene spesso utilizzata da altri musicisti jazz pugliesi. Gli archi di solito sono usati nella musica classica e infatti Coloriade presenta degli incastri che rimandano molto alla musica classica.

Due generi apparentemente opposti, la classica rigidamente inquadrata in partiture e il jazz che offre tantissimo spazio alla libertà espressiva del musicista.

Pace – Invece non è per nulla così. La gente pensa che il jazz sia libertà assoluta, che sullo strumento si può fare quello che si vuole. Non è così, non è solo così. E poi anche nella classica si improvvisa: Bach, Mozart, Liszt e tanti altri improvvisavano.

Mega – Io per esempio non ascolto più jazz, ma quasi esclusivamente classica. Questi due generi hanno molto in comune, più di quanto si pensi. Sia uno che l’altro vengono insegnati al conservatorio, e molti giovani si avvicinano al jazz proprio nelle scuole di formazione classiche. Ora tutti i giovani jazzisti hanno un diploma e una preparazione tecnica molto buona. E in Puglia ce ne sono molti…

Pace – La Puglia sembra la culla del jazz…

Mega – Non solo, anche la Campania, la Basilicata…

Il meridione insomma. Vero è che l’arte migliore è figlia della crisi. Dove si ascolta buona musica in Puglia?

Ci sono alcuni locali, come il Ueffilo di Gioia del Colle o lo Zelig di Foggia…

E dove vi piacerebbe suonare?

Pace – In un teatro, sicuramente…

Mega – In un teatro, Coloriade dovrebbe essere rappresentato in teatro.

Se si pensa al jazz vengono in mente altre situazioni, locali fumosi, affollati, il teatro fa venire in mente altro, qualcosa di già scritto, provato, inquadrato…

Mega – Il jazz ha una storia secolare, nasce in una determinata parte del mondo e poi si diffonde, ma non rimane uguale a se stesso. L’errore è immaginare il jazz sempre uguale a se stesso, con quei suoni, quelli strumenti. Le sonorità dell’America anni trenta possiamo rifarle anche oggi, ma non avrebbe senso. In Europa si suona in maniera diversa, e in Italia si suona in maniera ancora diversa. Fino ad arrivare in Puglia, dove nelle composizioni dei musicisti si sente la mediterraneità. Ognuno ci mette del suo, fino a produrre qualcosa di originale, andare fuori dai canoni. Il jazzista deve avere la capacità di produrre progetti originali e la conoscenza di cosa è la percezione.

Pace – Il jazz è un modo di esprimersi: hai la possibilità di mettere tanto di te, di fare tuo quello che suoi, renderlo personale. Letto il tema del pezzo si può improvvisare. Su uno stesso tema il mio assolo sarà diverso da quello di un altro e diverso da uno mio stesso fatto prima o che farò dopo. È esprimere nel momento quello che si prova. Anche in studio si improvvisa e anche in quel momento deve esprimere quello che provi: immagina in studio chiuso con la cuffia…

Bruno Tommaso (contrabbassista e compositore, primo presidente dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz, ndr) scrive sulla copertina di Coloriade: “Alle sue spalle vi è un cammino di civiltà, di sete di sapere, di potente voglia di sgombrare il campo dai soliti luoghi comuni che vogliono un mezzogiorno immobile e chiuso”. Il ritratto di un filosofo più che di un musicista…

Mega – Sapere che Bruno Tommaso dica queste cose di me, non può che rendermi felice. È la storia della musica moderna in Italia. Ma la cosa che più mi gratifica e che mi abbia dato del gentiluomo.

Parliamo di Antiphonae, una bellissima rassegna di jazz, sia concertistica che cinematografica, nata a Martina Franca e poi costretta, per la mancanza di appoggio da parte delle istituzioni, a spostarsi a Locorotondo. È Martina Franca il luogo comune di cui parla Tommaso?

Mega – Quanti anni sono passati dalla prima volta? Dieci forse…

Pace – Immagina che quando ci fu la prima edizione di Antiphonae io ancora non sapevo suonare.

Mega – Forse siamo solo in un brutto periodo…

Pace – Ci vorrebbe più dialogo con le istituzioni.

Mega – Posso dire che Antiphonae ha portato il jazz a Martina. Ma non è detto che a Martina prima o poi non torni. Il problema è che per fare cultura ci vogliono i soldi…

Pace – Forse se non si spendessero per le solite cose. Ma non dipende solo dal comune. Non ci sono locali adatti, e mancano i direttori artistici dei locali. Prendi questo posto (37 Music ArtCafè, ndr) che ha un buon direttore artistico e fa delle buone cose. Ci vorrebbe una cosa simile per il jazz.

Argomento su cui preferite non sbottonarvi, comprendo. Torniamo alla musica. Coloriade: che progetto all’interno dell’album?

Mega –Gli album si fanno per mettere un punto fermo alla propria storia creativa, affinchè diventino biglietti da visita. Grazie a Coloriade siamo andati a suonare all’Arezzo Jazz Winter e al Montemarciano Jazz. I brani rappresentano momenti diversi della mia carriera, non sono concatenati, non c’è un progetto unico per l’album, è molto eterogeneo.

Pace – Sembra che siano stanze con porte che si aprono con altre porte. I pezzi sono molto orecchiabili, non hanno qualche particolare difficoltà tecnica. Ma il progetto che ne è venuto fuori è eccezionale. Ricordo ancora il momento delle registrazioni: sentire Marco Tamburini (trombettista, colonna portante della musica di Jovanotti, ndr) in cuffia, dal vivo, e pensare che fino a poco tempo fa lo ascoltavi in Piazza Crispi, con la cassetta nello stereo della macchina e ora suona con te è un’esperienza fantastica.

Mega – Devo riconoscere che suonare con Javier Girotto e Marco Tamburini è stato un onore per me…

Cosa prevede il futuro?

Mega – Per ora sto suonando con un chitarrista di Matera (“dì che sono di Matera, ci tengo molto”) Dino Plasmati, in un gruppo chiamato Jazz Collective, dove siamo tutti materani. Poi sto suonando insieme alla LJP, la Lucanian Jazz Project Big Band, un progetto nato per ospitare grossi nomi: abbiamo fatto due concerti con Michael Rosen. Anche in questa formazione siamo quasi tutti materani, con un martinese: Claudio Chiarelli.

Pace – Io invece ho appena finito di suonare in tre dischi, sto scrivendo il mio secondo (il primo è stato” Introspezione di un viaggio”, ndr) e sto collaborando con diversi musicisti. In cantiere c’è il progetto di un omaggio a Bob Marley con Connie Valentini, un musicista martinese, e poi un disco con il pianista di Alex Britti e di Meg.

Mega – Ormai Camillo è uno dei contrabbassisti più richiesti del meridione…

Pace – E Pasquale è il mio padre musicale…

Ma cos’è il jazz alla fine?

Pace – Il jazz è l’idea all’interno di un’idea.

Mega – Bella definizione, mi piace. Il jazz è in primo luogo l’originalità del progetto. Io l’ho incontrato per caso: un giorno sentii il Köln Concert di Keith Jarrett. Ascoltavo molta musica classica in quel periodo e pensavo che il disco fosse un’opera per pianoforte. Quando scoprii che era tutta improvvisazione rimasi folgorato. Lì ho scoperto il jazz e quando lo incontri davvero non si torna indietro.

Gaza, Israele e il ruolo degli USA. Le bombe sono per Obama e non per Hamas.

Questa è la traduzione di un bell’articolo di Phyllis Bennis, giornalista, studiosa e attivista politica statunitense che segue da sempre i temi del Medio-Oriente, che in maniera molto semplice racconta in che modo quello che sta accadendo a Gaza ha a che fare più con Obama che non con Hamas. Illuminante è ben poco…

La crisi di Gaza: dicembre 2008

I raid illegali di Israele contro la popolazione di Gaza hanno poco a che fare con la protezione dei civili israeliani, sostiene Phyllis Bennis. I bombardamenti sono strumentali alla politica interna israeliana e hanno il significato di respingere ogni chanche di negoziati seri tra le parti che potrebbero avere luogo grazie ai piani dell’amministrazione Obama.

Il prezzo di morte a Gaza continua ad aumentare. La carneficina è ovunque – per strada, in una moschea, ospedali, stazioni di polizia, una prigione, una fermata degli autobus per l’università, una fabbrica di materiali plastici, una stazione televisiva. Sembra impossibile, inaccettabile, fare un passo indietro per analizzare la situazione mentre corpi umani rimangono sepolti sotto le macerie, mentre padri e madri continuano a cercare i loro bimbi scomparsi, mentre i dottori continuano a lavorare per cucire insieme corpi mutili e bruciati senza l’attrezzatura necessaria e senza le medicine sufficienti. Gli ospedali hanno scarsa elettricità – l’embargo israeliano ha negato loro il carburante per i generatori. È un risvolto ironico del coinvolgimento di Israele in un precedente massacro – a Sabra e Shatila, in Libano nel 1982, furono i soldati israeliani ad accendere i razzi, rischiarando il cielo notturno in modo che i loro alleati libanesi potessero continuare ad uccidere.

Ma se siamo seriamente intenzionati a porre fine a questo massacro, questa volta, non abbiamo altra scelta che provare ad analizzare, provare a tracciare cosa ha causato questo ultimissimo massacro, studiare come fermarlo e solo allora come continuare il nostro lavoro per mettere fine all’occupazione e alle politiche di apartheid israeliane e per fare in modo che la politica statunitense si occupi davvero di giustizia e uguaglianza per tutti.

In sintesi:

· I bombardamenti israeliani rappresentano una seria violazione delle leggi internazionali – inclusa la Convenzione di Ginevra e una vasta gamma di leggi umanitarie.

· Gli Stati Uniti sono complici in queste violazioni – direttamente o indirettamente

· Il momento scelto per i bombardamenti ha poco a che fare con le politiche di protezione dei civili israeliani da parte di Stati Uniti e Israele.

· Questa grave escalation cancellerà ogni possibilità di seri negoziati che potrebbero avere luogo grazie ai piani dell’amministrazione Obama.

C’è molto lavoro da fare

Limes

fonte: Limes

Violazione del diritto internazionale

I bombardamenti israeliani alla Striscia di Gaza violano importanti articoli della legge internazionale che regola i casi di guerra e della Convenzione di Ginevra. Le violazioni riguardano sia gli obblighi degli occupanti di proteggere la popolazione del paese occupato, sia i chiarissimi requisiti delle leggi di guerra che proibiscono specifici atti. La prima, palese, violazione è la punizione collettiva – tutto il 1’500’000 di persone che vive nella Striscia di Gaza è stato punito per le azioni di pochi militanti.

La dichiarazione di Israele che i bombardamenti sono una “risposta” o una “rappresaglia” per i razzi palestinesi è una menzogna. Sparare razzi come viene fatto correntemente è infatti illegale – i palestinesi, come ogni popolo che vive sotto un’occupazione militare nemica, ha il diritto di resistere, anche con la forza se è necessario. Ma questo diritto non comprende l’uccisione dei civili. I razzi usati non possono mirare ad alcunché, in questo modo però di fatto mirano alla popolazione civile che vive nelle città israeliane e in questo modo diventano illegali. Sarebbe il caso di porre fine all’uso dei razzi – come molti palestinesi pensano, perché non è di nessuna utilità alla lotta per la fine dell’occupazione, ma anche perché è illegale rispetto alle leggi internazionali. Comunque, i razzi, illegali o meno, non danno a Israele il diritto di punire l’intera popolazione per questi atti. Una vendetta del genere è essenzialmente una “punizione collettiva” ed è perciò inequivocabilmente proibita dalla Convezione di Ginevra.

Un’altra violazione di Israele riguarda l’attacco ai civili. Questa violazione è coinvolge tre aspetti. Primo: Israele dichiara che i bombardamenti hanno come obiettivo direttamente le istituzioni “controllate da Hamas” che hanno a che fare con la sicurezza. Fin da quando Hamas ha la maggioranza e controlla il governo a Gaza, virtualmente tutti i dipartimenti di polizia e gli altri siti legati alla sicurezza sono stati colpiti. La polizia e le agenzie di sicurezza sono obiettivi civili, non militari. Non c’entrano col governo guidato da Hamas a Gaza, sono un’istituzione completamente separata dall’ala militare che (sebbene senza alcun significato, secondo la maggioranza) ha lanciato i missili. Secondo: alcuni degli attacchi erano diretti incontestabilmente a obiettivi civile: una fabbrica di materiali in plastica e un canale televisivo locale. E terzo: l’incredibile affollamento in cui versa Gaza, uno dei posti più densamente popolati al mondo, significa che la possibilità di colpire civili su larga scala era inevitabile e prevedibile come risultato. Il bombardamento di aree civili simili è illegale.

Gli Stati Uniti sono direttamente complici nelle violazioni della Convenzione di Ginevra accadute durante l’embargo della Striscia di Gaza. Le azioni israeliane – la reclusione forzata degli abitanti di Gaza all’interno dei territori, la chiusura del confine al passaggio della maggior parte del carburante, del cibo, delle attrezzature e degli altri beni umanitari; l’impedire agli osservatori ONU e agli altri internazionali e ai giornalisti di entrare – hanno sempre il supporto degli Stati Uniti e degli altri nella comunità internazionale. La risultante crisi umanitaria – che ha mai raggiunto le proporzioni catastrofiche come durante questi raid – è in parte responsabilità degli USA.

Un’altra violazione ancora riguarda la sproporzionata natura dell’attacco militare. I raid aerei hanno ucciso almeno 270 persone (ora sono più di 400, ndt), feriti più di 1000 (1900, ndt), molti di loro gravemente e tanti sono rimasti sepolti sotto le macerie, così il prezzo probabilmente sarà destinato a salire. L’impatto catastrofico era prevedibile e inevitabile, e di gran lunga esagerato rispetto ogni proclama di autodifesa o di protezione dei civili israeliani. (Si potrebbe notare che questa escalation non ha prodotto una maggiore sicurezza per Israele; al contrario, l’israeliano ucciso da un razzo palestinese sabato scorso, dopo l’inizio dell’assalto israeliano, è stato il primo ucciso da un anno a questa parte in questo modo).

I funzionari osservatori per i diritti umani, in particolare il professor Richard Falk, Special Rapporteur per i diritti umani nei Territori Occupati, come Padre Miguel d’Escoto, Presidente dell’Assemblea Generale, hanno rilasciato forti dichiarazioni che identificano le violazioni israeliane alla legge internazionale in particolare agli obblighi stabiliti dall’Onu per la protezione dei Palestinesi (guarda la dichiarazione di Falk). Ma non ci sono state risposte adeguate, in particolare di carattere operativo dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La dichiarazione del Consiglio, del 28 dicembre, era totalmente insufficiente, perché equiparava le colpe della devastazione di Gaza sia agli Occupanti che agli Occupati. E la dichiarazione non fa riferimento alle violazioni alla legge internazionale rispetto l’attacco israeliano o l’assedio di Gaza in cui tutta la popolazione è stata drasticamente punita. C’è un palese bisogno per l’Assemblea Generale di intervenire per reclamare il ruolo di protezione della popolazione mondiale da parte dell’Onu, che include evidentemente i Palestinesi, e non solo quello di risposta alle pretese delle superpotenze.

La complicità degli Stati Uniti

Gli USA rimangono direttamente complici delle violazioni israeliane sia secondo le proprie leggi sia secondo le leggi internazionali a causa dei continui aiuti militari. Gli attacchi aerei che stanno avvenendo ora sono fatti in maggior parte dagli F-16 e dagli elicotteri Apache, entrambi forniti ad Israele grazie alla concessione di 3 miliardi di dollari all’anno di soldi pubblici per gli aiuti militari. Tra il 2001 e il 2006, Washington ha trasferito a Israele più di 200 milioni di dollari in pezzi di ricambio per la flotta degli F-16. Proprio l’anno scorso, gli Stati Uniti hanno firmato un contratto di 1,3 miliardi con la Raytheon corporation, per fornire ad Israele di migliaia di TOW (missili anticarro teleguidati), Hellfire (missili aria-terra anticarro in dotazione agli elicotteri) e i missili cosiddetti “sfonda bunker”. In breve, l’attacco letale di Israele nella Striscia di Gaza oggi non sarebbe avvenuto senza il supporto militare degli Stati Uniti.

L’attacco israeliano viola anche le leggi statunitensi – in maniera specifica l’Arm Export Control Act (la legge che regola l’esportazione di armi), che proibisce l’uso di armi americane per qualsiasi scopo a parte una serie ristrettissima di circostanze: l’uso all’interno dei propri confini a scopo di difesa da un attacco. L’attacco a Gaza non rientrava in questi criteri. È chiaro che mirare alle stazioni della polizia (Israele non ha mai dichiarato che i razzi sparati da Gaza fossero da attribuire alla polizia palestinese) e ai canali televisivi non è qualificabile come autodifesa. E siccome gli Stati Uniti hanno confermato di essere a conoscenza dell’attacco prima che questo avvenisse, sono da considerare complici di queste violazioni. Inoltre, la ben nota storia delle violazioni di Israele alle leggi del diritto internazionale (dettagliate sopra) significa che i funzionari del Governo americano erano a conoscenza di queste violazioni, ma nonostante questo hanno fornito le armi a Israele, e questo li rende complici dei loro crimini.

Gli USA sono complici anche in maniera indiretta grazie alla protezione di Israele all’interno delle Nazioni Unite. Queste azioni, incluso l’uso o la minaccia dell’uso del veto nel Consiglio di Sicurezza e la dipendenza dalla cruda forza per mettere pressione alle diplomazie e ai governi affinchè ammorbidiscano le loro critiche nei confronti di Israele, tutto questo per proteggerlo e non permettere alla comunità internazionale di ritenerlo responsabile di alcunché.

I tempi di attacco di Israele su Gaza

La decisione israeliana di attaccare Gaza è stata politica e non legata alla sicurezza. Un paio di giorni prima delle incursioni aeree, fu Israele che rifiutò l’iniziativa diplomatica di Hamas volte ad estendere la tregua di sei mesi che durava da giugno e finiva il 26 dicembre. I funzionari di Hamas, che lavoravano attraverso i mediatori egiziani, hanno esortato Israele a revocare l’assedio di Gaza come presupposto per continuare il cessate il fuoco. Israele, incluso il ministro degli Esteri Tsipi Livni, del partito Kadima (centrista, nel contesto israeliano), respinse la proposta. Livni, che è andata in Egitto ma si è rifiutata di considerare seriamente la proposta di Hamas, è in corsa per diventare Primo Ministro, in una gara molto tesa; il suo più importante opponente è l’ulteriormente a destra Benyamin Netanyahu, l’ufficialmente intransigente del Likud, che ha fatto una campagna contro la Livni e il governo del Kadima per il loro presunto approccio “soft” alla questione palestinese. Con le elezioni che incombono a Febbraio, nessun candidato si può permettere di apparire se non super-militarista.

Oltretutto, è chiaro che il governo israeliano era ansioso di usare l’esercito mentre Bush era ancora in carica. Il Washington Post riporta una dichiarazione di un membro dell’amministrazione Bush che dice che Israele ha attaccato Gaza “perché loro volevano che accadesse prima che arrivi la nuova amministrazione. Non potendo prevedere in che modo essa gestirà la cosa. E questo è il motivo per cui essi volevano iniziare prima che la nuova amministrazione si insediasse”. I funzionari israeliani potrebbero o meno aver visto giusto a proposito della probabilità che Obama reagisca differentemente da Bush riguardo questo argomento – ma questo obbliga ognuno di noi in questo paese che ha votato speranzoso per Obama, di fare tutto il necessario per fare pressione su di lui affinchè il cambiamento sia buono davvero e possa ancora incrementare la speranza.

Obama e le possibilità future

L’escalation di violenza a Gaza renderà virtualmente impossibile ogni serio tentativo di negoziato per mettere fine all’occupazione. Ma rimane incerto se la sponsorizzazione per negoziati immediati sia di fatto prevista tra i primi impegni di Obama. La crisi corrente, comunque, sta a significare che ogni negoziato, sia esso apparentemente solo tra Israele e Palestina, sia coinvolgendo il “Quartetto” controllato dagli USA (ONU, UE, Russia e Stati Uniti, ndt), sarà in grado di andare al di là di un ritorno al periodo precedente i bombardamenti. Un periodo comunque di crisi, lontane dall’essere risolte, che erano caratterizzate dall’espansione degli insediamenti israeliani, il Muro dell’apartheid, i checkpoint paralizzanti come paralizzati erano i movimenti, il commercio e la vita quotidiana in tutto la Cisgiordania, il quasi impenetrabile assedio di Gaza, che prima dell’attuale aggressione militare, avevano creato una catastrofe umanitaria.

Cosa facciamo allora?

La risposta immediata è tutto: scrivere lettere ai membri del Congresso e al Dipartimento di Stato, manifestare davanti alla Casa Bianca e all’ambasciata israeliana, scrivere a chiunque possa fornire uno sbocco alle notizie, chiamare i talk-show in radio, denunciare la protezione dei rappresentanti Usa all’Onu ai crimini israeliani. Abbiamo bisogno di impegnarci nel processo di cambiamento di Obama e pianificare come fare pressione affinchè ci sia un reale cambiamento della politica americana in Medio Oriente. Dovremmo tutti partecipare al movimento di solidarietà e indignazione per Gaza. Ci sono già online una serie di petizioni – dovremmo firmarle tutte. Il movimento statunitense per la fine dell’occupazione israeliana sta mettendo a punto delle azioni a cui dovremmo partecipare.

Ma questo dopo. Non possiamo fermarci solo con le mobilitazioni. Abbiamo ancora da costruire un movimento per il BDS – boycott, divestment e sanctions (per il boicottaggio, le cessioni dei territori e le sanzioni, ndt), per costruire una campagna mondiale non-violenta di pressione economica per obbligare Israele a rispettare il diritto internazionale. Dobbiamo combattere contro gli aiuti militari Usa, in modo da dare un colpo di grazia alle aggressioni israeliane, dobbiamo combattere contro il supporto politico e diplomatico statunitense che impedisce all’Onu e alla comunità internazionale di chiedere contro ad Israele delle sue violazioni. Abbiamo da fare un duro lavoro di educazione e di appoggio, imparando dai movimenti che sono venuti prima di noi come essere coraggiosi abbastanza da chiamare qualcosa con il suo vero nome: le politiche israeliane sono politiche di apartheid, e devono essere combattute su queste basi.

Abbiamo tanto lavoro da fare.

Caro Babbo Natale…

La letterina a Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

mi chiamo Massimiliano e sono un giovane abitante di Martina Franca. Volevo dirti che quest’anno non sono sempre stato buono, qualche volta mi sono incazzato, e qualche volta mi sono comportato male, ma ho sempre cercato di essere bravo e buono. Quest’anno, caro Babbo Natale, ho pagato tutte le tasse, alcune aumentate del 50 percento, come quella sulla spazzatura, ma non perché ho ingrandito la mia casa, ma perché il Comune si è beccato una bella multa e dobbiamo pagarla tutti. I maligni dicono che è colpa degli amministratori che, nonostante le sentenze dei giudici e le leggi della Regione, non fanno una nuova gara d’appalto per lo smaltimento. Io credo che lo facciano perché hanno a cuore le sorti dei dipendenti della Tradeco.

Caro Babbo Natale, quest’anno qualche volta mi sono lasciato andare a brevi turpiloqui. Quando ero nel traffico soprattutto, perché mi scocciavo di metterci mezz’ora da Cristo Re all’Ospedale. Immagino che scorazzando tra le stelle con le tue renne non hai problemi di doppie file che intralciano il passaggio, di cerebrolesi che ti guardano sorridendo sorseggiando caffè mentre la loro macchina blocca la tua, di soste espressioniste al centro strada, di signore troppo impellicciate per capire che lo spazio vuoto tra due auto è un parcheggio dove poter lasciare il loro ingombrante inutile Suv. Mi sto innervosendo, ma mentre ti scrivo, caro Babbo Natale, rivivo le scene che accadono quotidiane.

È stato un anno allegro, quasi, tranne che per due miei amici che si sono sposati e non riescono a trovar casa, che ci vorrebbero un po’ di mutui subprime anche qui da noi. Lo sai che una casa arriva a costare 3600 euro al metro? Sono sicuro che da voi in Lapponia non è così. Questo fatto mi ha intristito e se mi intristisco mi arrabbio un po’, e me la prendo con gli amministratori che, poveretti, sono troppo impegnati per pensare al piano regolatore.

È stato un anno molto intenso. Al giornale ci sono stati nuovi acquisti e tutti abbiamo un po’ acquisito esperienza. Ma la vita del cronista, sia esso di cronaca o di sport, di inchiesta o di politica, non è mai semplice e spesso, a causa dell’abitudine a leggere i fidi scribi, sembra che il lavoro fatto non valga nulla. Ma noi non ci arrendiamo e anzi ti chiedo che questo Natale mi porti un po’ di pazienza e di cortesia nei confronti di chi è re in paese ma già all’altezza di San Paolo conta come il due di briscola.

Vorrei la capacità di raccontare a tutti, senza la paura di non essere capito.

Sotto l’albero la mattina del 25 spero di trovare splendente lo spirito cristiano dell’accoglienza, che gli abiti talari non indichino solo arringhe vigorose ai fedeli intruppati ma scarpe sporche di fango e mani che abbiano toccato la povertà.

Vorrei aprire un pacco e trovare il modo perché la gente non veda nei ragazzi dell’Hotel dell’Erba dei concorrenti nella miseria ma dei fratelli vittime anche loro degli stessi meccanismi che divide il mondo in sfruttati e sfruttatori.

Anche se non sono stato un esempio di bontà, ti chiedo, Babbo Natale, di portarmi un paio di forbici magiche per tagliare i fili tra i vertici delle piramidi di potere che impoveriscono le nostre terre e le nostre menti e le persone normali, laboriose, oneste, costrette ogni giorno ad inchinarsi perché ci fanno credere che i nostri diritti non sono nient’altro che privilegi.

Portami una gara d’appalto per i rifiuti, affinchè anche a Martina si possa fare un po’ di raccolta differenziata. Regalami un’idea per spiegare agli imprenditori della zona industriale che non possono usare i cassonetti normali per gettare i rifiuti delle loro imprese, perché altrimenti a pagare siamo noi cittadini. Regalami un po’ di buon senso da mettere sotto il tergicristallo delle macchine parcheggiate in doppia fila. Regalami un vigile personale che multi chi non sa guidare.

Babbo Natale, se c’è spazio nel tuo sacco ti chiedo un chilo di saggezza, da donare ai nostri amministratori, affinchè capiscano che governare non significa emettere ordinanze contro chi sputa o emette flatulenze, ma timonare una nave che non deve affondare.

Vorrei un po’ d’ordine, per favore, nel nostro Ufficio Tecnico, perché mi dispiace che spesso si perdano le carte.

Vorrei un po’ di sicurezza, se è possibile, vorrei poter sognare una prospettiva e un futuro e non ringraziare di essere arrivato alla fine del mese.

Per ultimo, caro Babbo Natale, ti chiedo di trovarmi quella scatola di giocattoli che quand’ero bambino mio padre mi comprò dal negozio sotto casa, quella dove c’erano le casette in plastica colorate, da assemblare. Quella scatola che stava in vetrina in quel negozio di giocattoli che ora non c’è più.