Dal Jazz non si torna indietro

Intervista a Pasquale Mega e Camillo Pace alla ricerca del significato della musica (jazz)

pubblicata su Extramagazine n. 6 del 13/02/2009


Per essere un lunedì mattina freddo e piovigginoso di febbraio, l’atmosfera sembrava più adatta al blues che al jazz. Pasquale Mega e Camillo Pace li incontriamo per parlare di musica, di “Coloriade”, dell’album che Pasquale ha scritto e che è stato pubblicato nell’estate del 2007 dall’etichetta Dodicilune di Lecce. La conversazione ha preso fin dall’inizio una piega incontrollabile, dato che il leit-motiv è stata la ricerca di una definizione appropriata del concetto di jazz. Tra una domanda e il caffè e la risposta e la foto e un’altra domanda, a qualcuno veniva in mente l’intuizione, il lampo di genio, la metafora migliore per spiegare cosa fosse quel tipo di musica che suona così, jazz.

Perché Coloriade?

Mega – Così, è stata una cosa improvvisa, un’intuizione di un attimo. Non significa nulla, non esiste in nessuna lingua al mondo, ma riesce bene a dare un’idea dell’album. I brani sono stati composti in un lungo arco di tempo, non è stata un’idea unica. Il punto centrale è la presenza degli archi, non consueti nelle formazioni jazz.

Pace – Pasquale è stato il primo in Puglia ad usarli. È stata un’intuizione che adesso viene spesso utilizzata da altri musicisti jazz pugliesi. Gli archi di solito sono usati nella musica classica e infatti Coloriade presenta degli incastri che rimandano molto alla musica classica.

Due generi apparentemente opposti, la classica rigidamente inquadrata in partiture e il jazz che offre tantissimo spazio alla libertà espressiva del musicista.

Pace – Invece non è per nulla così. La gente pensa che il jazz sia libertà assoluta, che sullo strumento si può fare quello che si vuole. Non è così, non è solo così. E poi anche nella classica si improvvisa: Bach, Mozart, Liszt e tanti altri improvvisavano.

Mega – Io per esempio non ascolto più jazz, ma quasi esclusivamente classica. Questi due generi hanno molto in comune, più di quanto si pensi. Sia uno che l’altro vengono insegnati al conservatorio, e molti giovani si avvicinano al jazz proprio nelle scuole di formazione classiche. Ora tutti i giovani jazzisti hanno un diploma e una preparazione tecnica molto buona. E in Puglia ce ne sono molti…

Pace – La Puglia sembra la culla del jazz…

Mega – Non solo, anche la Campania, la Basilicata…

Il meridione insomma. Vero è che l’arte migliore è figlia della crisi. Dove si ascolta buona musica in Puglia?

Ci sono alcuni locali, come il Ueffilo di Gioia del Colle o lo Zelig di Foggia…

E dove vi piacerebbe suonare?

Pace – In un teatro, sicuramente…

Mega – In un teatro, Coloriade dovrebbe essere rappresentato in teatro.

Se si pensa al jazz vengono in mente altre situazioni, locali fumosi, affollati, il teatro fa venire in mente altro, qualcosa di già scritto, provato, inquadrato…

Mega – Il jazz ha una storia secolare, nasce in una determinata parte del mondo e poi si diffonde, ma non rimane uguale a se stesso. L’errore è immaginare il jazz sempre uguale a se stesso, con quei suoni, quelli strumenti. Le sonorità dell’America anni trenta possiamo rifarle anche oggi, ma non avrebbe senso. In Europa si suona in maniera diversa, e in Italia si suona in maniera ancora diversa. Fino ad arrivare in Puglia, dove nelle composizioni dei musicisti si sente la mediterraneità. Ognuno ci mette del suo, fino a produrre qualcosa di originale, andare fuori dai canoni. Il jazzista deve avere la capacità di produrre progetti originali e la conoscenza di cosa è la percezione.

Pace – Il jazz è un modo di esprimersi: hai la possibilità di mettere tanto di te, di fare tuo quello che suoi, renderlo personale. Letto il tema del pezzo si può improvvisare. Su uno stesso tema il mio assolo sarà diverso da quello di un altro e diverso da uno mio stesso fatto prima o che farò dopo. È esprimere nel momento quello che si prova. Anche in studio si improvvisa e anche in quel momento deve esprimere quello che provi: immagina in studio chiuso con la cuffia…

Bruno Tommaso (contrabbassista e compositore, primo presidente dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz, ndr) scrive sulla copertina di Coloriade: “Alle sue spalle vi è un cammino di civiltà, di sete di sapere, di potente voglia di sgombrare il campo dai soliti luoghi comuni che vogliono un mezzogiorno immobile e chiuso”. Il ritratto di un filosofo più che di un musicista…

Mega – Sapere che Bruno Tommaso dica queste cose di me, non può che rendermi felice. È la storia della musica moderna in Italia. Ma la cosa che più mi gratifica e che mi abbia dato del gentiluomo.

Parliamo di Antiphonae, una bellissima rassegna di jazz, sia concertistica che cinematografica, nata a Martina Franca e poi costretta, per la mancanza di appoggio da parte delle istituzioni, a spostarsi a Locorotondo. È Martina Franca il luogo comune di cui parla Tommaso?

Mega – Quanti anni sono passati dalla prima volta? Dieci forse…

Pace – Immagina che quando ci fu la prima edizione di Antiphonae io ancora non sapevo suonare.

Mega – Forse siamo solo in un brutto periodo…

Pace – Ci vorrebbe più dialogo con le istituzioni.

Mega – Posso dire che Antiphonae ha portato il jazz a Martina. Ma non è detto che a Martina prima o poi non torni. Il problema è che per fare cultura ci vogliono i soldi…

Pace – Forse se non si spendessero per le solite cose. Ma non dipende solo dal comune. Non ci sono locali adatti, e mancano i direttori artistici dei locali. Prendi questo posto (37 Music ArtCafè, ndr) che ha un buon direttore artistico e fa delle buone cose. Ci vorrebbe una cosa simile per il jazz.

Argomento su cui preferite non sbottonarvi, comprendo. Torniamo alla musica. Coloriade: che progetto all’interno dell’album?

Mega –Gli album si fanno per mettere un punto fermo alla propria storia creativa, affinchè diventino biglietti da visita. Grazie a Coloriade siamo andati a suonare all’Arezzo Jazz Winter e al Montemarciano Jazz. I brani rappresentano momenti diversi della mia carriera, non sono concatenati, non c’è un progetto unico per l’album, è molto eterogeneo.

Pace – Sembra che siano stanze con porte che si aprono con altre porte. I pezzi sono molto orecchiabili, non hanno qualche particolare difficoltà tecnica. Ma il progetto che ne è venuto fuori è eccezionale. Ricordo ancora il momento delle registrazioni: sentire Marco Tamburini (trombettista, colonna portante della musica di Jovanotti, ndr) in cuffia, dal vivo, e pensare che fino a poco tempo fa lo ascoltavi in Piazza Crispi, con la cassetta nello stereo della macchina e ora suona con te è un’esperienza fantastica.

Mega – Devo riconoscere che suonare con Javier Girotto e Marco Tamburini è stato un onore per me…

Cosa prevede il futuro?

Mega – Per ora sto suonando con un chitarrista di Matera (“dì che sono di Matera, ci tengo molto”) Dino Plasmati, in un gruppo chiamato Jazz Collective, dove siamo tutti materani. Poi sto suonando insieme alla LJP, la Lucanian Jazz Project Big Band, un progetto nato per ospitare grossi nomi: abbiamo fatto due concerti con Michael Rosen. Anche in questa formazione siamo quasi tutti materani, con un martinese: Claudio Chiarelli.

Pace – Io invece ho appena finito di suonare in tre dischi, sto scrivendo il mio secondo (il primo è stato” Introspezione di un viaggio”, ndr) e sto collaborando con diversi musicisti. In cantiere c’è il progetto di un omaggio a Bob Marley con Connie Valentini, un musicista martinese, e poi un disco con il pianista di Alex Britti e di Meg.

Mega – Ormai Camillo è uno dei contrabbassisti più richiesti del meridione…

Pace – E Pasquale è il mio padre musicale…

Ma cos’è il jazz alla fine?

Pace – Il jazz è l’idea all’interno di un’idea.

Mega – Bella definizione, mi piace. Il jazz è in primo luogo l’originalità del progetto. Io l’ho incontrato per caso: un giorno sentii il Köln Concert di Keith Jarrett. Ascoltavo molta musica classica in quel periodo e pensavo che il disco fosse un’opera per pianoforte. Quando scoprii che era tutta improvvisazione rimasi folgorato. Lì ho scoperto il jazz e quando lo incontri davvero non si torna indietro.

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