Il popolo dei senza libertà, secondo una ONG Usa, siamo ultimi in Europa

Ecco pubblicata la classifica di Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, e come sospettavamo l’Italia non è tra i paesi in cui i giornalisti sono liberi di scrivere quello che vorrebbero. Dire che non ce ne fossimo accorti sarebbe ipocrisia, ma che la notizia arrivi da un centro studi diciamo che un po’ fa riflettere.Ma fa riflettere il fatto di come la notizia sia stata riportata dai media, i soliti, un trafiletto sperso tra le pagine e i commenti sul divorzio di Veronica da Silvio, una lieta notizia ambientata ad Onna, e l’influenza suina che a quanto pare è stata sconfitta prima che si propagasse. Certo, direte voi, se fossimo in un paese libero, la notizia non verrebbe data perchè non è una notizia, oppure sarebbe data con squilli di tromba e con dibattiti infiniti. Invece, e questo è proprio il simbolo di quello che accade in Italia, una notizia terrificante come questa viene data con nonchalanche, tipo: “ah, a proposito, non viviamo in un paese libero…”.

Intanto, le motivazioni per cui l’Italia viene posizionata dopo il Benin e il “civilissimo e democratico” Israele, sono queste:

“The region registered one status downgrade in 2008, as Italy slipped back into the Partly Free range thanks to the increased use of courts and libel laws to limit free speech, heightened physical and extralegal intimidation by both organized crime and far-right groups, and concerns over media ownership and influence. The return of media magnate Silvio Berlusconi to the premiership reawakened fears about the concentration of state-owned and private outlets under a single leader”.

In pratica, dicono questi tipi, oltre che un po’ di leggi fatte per rendere il lavoro di cronista più burocratizzato e farraginoso, ci si mette anche Berlusconi e il suo dannatissimo et sempiterno conflitto di interessi. Non siamo un paese libero perchè prima di essere capo del governo il Nostro controllava quasi tutti i giornali e le tivvù.

E non sono usate parole miti, ma: il risveglio delle paure di una concentrazione di potere nelle mani di una sola persona…

E allora, direte, che si fa? Si fa che si inizia a guardarsi intorno alla ricerca di alternative (Officina sarà o non sarà edita da Mondadori?), oppure, e questo sarebbe già una cosa bella in sè, potremo iniziare di nuovo ad indignarci profondamente perchè c’è qualcosa che non va. Qualcosa non va nel Paese in cui la Liberazione diventa Libertà, qualcosa non va nel Paese in cui governa il Popolo della Libertà, qualcosa non va in una democrazia che divide il popolo in quelli che vogliono la Libertà e quelli che sono Democratici. Qualcosa non va se si sente il bisogno di scrivere queste parole.

Ecco il link della Freedom House dove c’è la statistica dei paesi liberi e le motivazioni.

Chi ci guadagna dalla campagna sulla sicurezza

La campagna per la sicurezza messa in piedi da Berlusconi e i suoi accoliti, a prima vista sembra una chiara dimostrazione dell’indole neofascista del Governo, che indica, in un momento di crisi strutturale del sistema capitalista, come “untore” o causa del Male assoluto, l’Altro, l’immigrato, diverso da noi perchè vittima del proprio istinto animalesco a violare, fare del male, ma a ben guardare, non è nient’altro che un altro esempio della terribile propaganda di cui siamo vittime. Questa campagna, che può sembrare razzista ad un primo sguardo, ma che cela risvolti ancora più inquietanti che di seguito spiegheremo, è supportata da un sistema mediatico disinformativo che addirittura, come fa il Corriere della Sera tramite una delle sue penne di punta, indica nello stupro l’atto rituale attraverso cui gli Invasori, gli immigrati, dimostrano a noi (noi chi?) di aver conquistato la Patria. Evitando giudizi di merito sul concetto di Nazione, Patria, la cui a-storicità e a-scientificità riempirebbero troppe pagine, vorremmo soffermare la nostra attenzione su chi e cosa trae giovamento da questa campagna disumana. Il razzismo è una buona scusa per racchiudere alcune scelte berlusconiane, e leggere alcuni eventi in questa chiave è legittimato dalla presenza nella compagine governativa di gruppi di bovari nordici saliti al rango di deputati, ma il razzismo è un modo per solleticare la fantasia popolare e dare in pasto al suo giudizio colpevoli immediatamente riconoscibili di pesanti disagi. Se il lavoro è merce rara, secondo la formula razzista, è colpa dell’africano che lo ruba, e non perchè l’africano senza documenti e quindi senza diritti, costa meno e rende di più in termini di ricavo da parte del padrone. Il costo del lavoro è il centro della questione: se il capitale si sposta verso luoghi in cui il costo del lavoro è basso o bassissimo, i lavoratori si spostano verso luoghi in cui il costo del lavoro è più alto: gli imprenditori italiani aprono fabbriche in Romania, i lavoratori rumeni cercano lavoro in Italia. Con l’entrata della Romania nell’UE e quindi in Shengen, i lavoratori rumeni hanno avuto libertà di movimento nei paesi dell’Europa occidentale e quindi la possibilità di cercare lavoro senza la necessità di un permesso di soggiorno. Questo, è ovvio, ha svuotato di braccia la Romania e ha creato problemi ai vari imprenditori alla ricerca di manodopera a basso costo. In questa differenza tra offerta e domanda di lavoro, si inserisce la campagna mediatica contro “lo stupratore rumeno”, che non è altro che un modo per ovviare Shengen attraverso la criminalizzazione di un gruppo di individui, il cui lavoro costa di meno in patria che non in Italia. A supporto di questa tesi, ecco un passaggio dell’articolo pubblicato sulla rivista di Confindustria “L’imprenditore” di aprile dello scorso anno, in cui si intervista Marco Tempestini, presidente di Unimpresa Romania. Alla domanda dell’intervistatore: Che mercato offre la Romania agli imprenditori italiani?, Tempestini risponde, dopo aver elencato un alto numero di vantaggi, soprattutto dal punto di vista del costo del lavoro ([…] un costo della manodopera sicuramente in aumento, ma a livelli ancora bassissimi, rispetto a quelli dei paesi europei […]), parla di un “rovescio della medaglia” : “la propensione all’emigrazione sta depauperando le risorse umane a disposizione delle aziende[…]“.

“La Legge Carfagna è un tradimento”

Nonostante si dica che è il mestiere più antico del mondo, le discussioni sulla prostituzione sono sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando quest’argomento viene alimentato dalle polemiche prodotte dall’incapacità politica di affrontare il problema. Nel frattempo che ministri preti e soubrette si affrontano nell’arena televisiva, migliaia di ragazze sono per strada o chiuse in appartamenti oppure in viaggio verso l’Italia con la falsa speranza di intrecciare capelli o fare le badanti. Se da una parte si deve arginare il fenomeno intervenendo in maniera repressiva, dall’altro è necessario incrementare l’azione di protezione sociale che può permettere a queste persone, spesso vittime inconsapevoli di traffici assai lucrosi, una via d’uscita, condividendo le buone pratiche che il privato sociale ha sperimentato negli anni. Di questo si è parlato a “O-Scena: Le trame indicibili e invisibili della violenza sulle donne” in un convegno tenutosi giovedì 16 a Trani, organizzato dalla cooperativa sociale “Comunità Oasi2 San Francesco”. La giornata, che rientrava nelle attività previste dal progetto Interreg Italia-Albania chiamato “Shtepi” (casa), che prevedeva la collaborazione delle realtà pugliesi e albanesi che lavorano con chi è vittima di tratta e sfruttamento sessuale, ha visto il succedersi di molti interlocutori, che hanno condiviso con la platea le proprie esperienze riguardo l’argomento. Era impossibile, dato il tema, non commentare la famigerata legge Carfagna. Lo hanno fatto in maniera originale, da un punto di vista scientifico, dato che si tratta di addetti ai lavori, il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, Giuseppe Scelsi e la professoressa Patrizia Resta, antropologa dell’Università di Foggia. Nelle parole del sostituto procuratore, la legge Carfagna viene descritta pressappoco come un “tradimento”, da due prospettive diverse. La prima riguarda tutta la giurisprudenza internazionale, ossia la direzione che i legislatori hanno dato per la risoluzione del problema. Se sia nella storia del diritto locale ed europeo, si è cercato di concertare l’azione repressiva con quella inclusiva e di protezione, il disegno di legge della Ministra rende vani tutti gli sforzi fatti finora. Cacciando le prostitute dalla strada si nasconde il reato, il suo corpo, e questo rende più difficile l’intervento delle forze dell’ordine e degli operatori sociali. Il secondo “tradimento” è più intimo, e riguarda il contesto sociale ed emozionale da cui questa legge scaturisce: la paura. A tradire in questo caso è quello che non viene espresso ma che rimane implicito: la paura di questo fenomeno. E per paura si nasconde, si allontana dalla vista, dalla percezione. Il problema non solo non viene risolto ma viene allontanato dai sensi, applicando la terribile legge della propaganda: quello che non c’è non si vede. 

Alle parole di Scelsi fanno eco quelle della professoressa Resta che del fenomeno invece si occupa da un punto di vista scientifico. Al centro del suo discorso c’è il ruolo della cultura, intesa come produzione e diffusione delle conoscenze, e dell’importanza di essa nei cambiamenti sociali. Porta l’esempio della prostituzione albanese degli anni novanta, quando sulle strade pugliesi c’erano decine di ragazze provenienti dall’altra parte del Canale d’Otranto. Il meccanismo di reclutamento delle giovani donne era semplice: venivano fatte sposare con alcuni uomini con la promessa di un futuro migliore in Italia ma, sbarcate in Puglia venivano mandate per strada. Un tipo di organizzazione necessario perché le rigide leggi del Kanun, della tradizione orale albanese, impediva alle ragazze di lasciare la propria casa se non sposate. Solo attraverso l’attento studio del fenomeno e la sua divulgazione attraverso i mezzi di comunicazione anche albanesi ha permesso di arginarlo, intervenendo direttamente a monte del problema: le famiglie. Venendo a conoscenza del meccanismo perverso, i padri hanno impedito che questo si ripetesse oltre. Questa stessa pratica potrebbe essere usata per la versione moderna del meretricio, che vede per strada invece ragazze prevalentemente africane, nigeriane, andare alla radice e capire per intervenire direttamente a Benin City. Ma questo diventa difficile se, invocando un senso del pudore fittizio, funzionale alla propaganda politica, il fenomeno viene occultato, come la polvere sotto il tappeto. Oscene non sarebbero più le violenze ma le donne stesse.

Un movimento di opinione di operatori sociali e di addetti ai lavori si sta muovendo per impedire che la legge Carfagna renda nullo il lavoro di anni, fatto all’insegna della protezione e dell’inclusione delle ragazze vendute e comprate, vittime di un traffico malvagio. Antonella De Benedictis, responsabile dell’Area Immigrazione dell’Oasi2 non lesina parole dure nei confronti dei possibili scenari futuri che, sulla base del detto “occhio non vede, cuore non duole”, impediranno fattivamente alle organizzazioni sociali di intercettare le vittime del traffico di esseri umani, lasciandole per sempre in balia dei loro sfruttatori.