“Il sazio non conosce la fame”

A Grottaglie la festa per la fine del Ramadam occasione di incontro e integrazione.

GROTTAGLIE – Hiba sorride orgogliosa mentre posa il piatto sulla tavola apparecchiata. Il tutbia, il riso con mandorle tostate, uva passa e carne non solo ha un buon sapore, ma è bella anche la presentazione: sembra una montagna caramellata di pinoli. Tra i tavoli pieni di gente nella piazzetta davanti al centro Passi di Donna di Grottagle, il riso di Hiba sta spopolando: c’è un andirivieni fitto di persone che fanno la spola tra la tavola e la propria sedia.

Un momento della festa

Un momento della festa

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E PER CASA UN TETTO DI STELLE

Dopo sei mesi scade la convenzione tra la Prefettura e la Croce Rossa. Nessun futuro certo per i rifugiati ospitati presso il Dell’Erba di Martina Franca.

Dopo sei mesi di permanenza discreta, i cento richiedenti asilo ospitati presso l’Hotel Dell’Erba di Martina andranno via. Così come al loro arrivo, improvviso e silenzioso, così alla loro partenza, decretata per la scadenza della convenzione tra la Croce Rossa, che gestisce il centro e la Prefettura, che paga da parte del Governo, tutto accadrà nel silenzio più perfetto.

Strana storia quella dei migranti martinesi, che all’inizio non sapevano nemmeno dove fossero ed erano circondati da persone che nemmeno sapevano chi fossero. Erano vestiti tutti uguali e giravano per la città lungo Corso Italia e tutti li scambiavamo per una squadra di pallone. Poi iniziarono a girare alcune voci sulla loro reale identità fin quando a metà dicembre non decidono di manifestare in piazza per chiedere più diritti. Dopo due settimane di permanenza a Martina Franca un gruppo di loro capisce che c’è qualcosa che non va: vengono convocati i giornalisti e con gran pacche sulle spalle ci viene comunicato che è tutt’apposto. Tutt’apposto perché i manifestanti sono ragazzi, che bisogna capirli, che non hanno capito come funziona la questione, che non dipende da noi, ma da altri, che noi già abbiamo fatto di più di quello che ci spettava. Già, ma cosa?

Con l’ordinanza del Presidente Berlusconi del 12 settembre del 2008, vengono istituiti dei CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo) supplementari, in ausilio del sistema presente perché il numero degli sbarchi durante l’estate è nettamente aumentato. L’ordinanza prevede che si trovino delle strutture, in tutto il paese saranno una sessantina, per ospitare diecimila migranti in attesa che la domanda di asilo venga vagliata dalle commissioni territoriali. Un implemento dell’accoglienza notevole, con una spesa complessiva di milioni di euro. La convenzione tra la Croce Rossa di Taranto e la Prefettura prevede una spesa giornaliera di 47 euro a persona, che dovrebbe comprendere vitto alloggio e tutti i servizi che il Ministero dell’Interno prevede per una buona accoglienza: mediazione interculturale, mediazione linguistica, corsi di lingua, supporto legale, supporto socio psicologico, assistenza sanitaria, acquisto di vestiti e di beni di prima necessità. In sei a Martina è arrivato circa un milione di euro con cui la Croce Rossa ha reso possibile l’accoglienza dei migranti.

L’ordinanza del 12 settembre però, è in deroga a tutta la legislazione italiana sull’immigrazione: l’incremento degli arrivi ha fatto scattare un’emergenza che, per essere risolta, il Governo decide che la legge normale non basta. I centri governativi di accoglienza, che poi assumono lo status di CARA, vengono aperti in fretta e furia e affidati alla gestione di enti, per la maggior parte ecclesiastici, senza nessuna gara di evidenza pubblica, vengono assegnate delle somme abbastanza alte (di solito per l’accoglienza dei migranti la somma quotidiana procapite è nettamente inferiore) e si lascia tutto al buon cuore di chi gestirà il posto, perché la convenzione non specifica i capitoli di spesa, non dice quanto viene riconosciuto alla struttura ospitante (in questo caso il Dell’Erba), non dice quanto bisogna spendere per i corsi di italiano, per esempio. E soprattutto non prevede una rendicontazione finale, in base alla quale verificare le spese. Diventa probabile che una cosa del genere si possa trasformare in un affare lucroso, se non conoscessimo le pie intenzioni degli enti che si fanno carico della questione, basterebbe avere a disposizione dei volontari anche non qualificati che lavorino gratis, acquistare materiale di scarsissima qualità, ad esempio scarpe da ginnastica che durano meno di dieci giorni, affidarsi per i corsi di italiano a insegnanti in pensione, e qualcosa in tasca rimane.

A questo però si deve aggiungere che i soldi stanziati dal Governo per l’accoglienza dei rifugiati, sono solo per la prima accoglienza, per i CARA, mentre a tutta la rete SPRAR, che gestisce i centri di seconda accoglienza, fondamentali per l’inclusione e l’integrazione, vengono tagliati i fondi. Il migrante in pratica arriva in Italia, viene lavato stirato controllato e interrogato e infine marchiato buono o cattivo. Poi viene sbattuto in strada al suo destino, con pochissime prospettive di sopravvivenza legale. I centri SPRAR servivano appunto ad accogliere i rifugiati e a trovar loro casa e lavoro, con l’attivazione di una rete di realtà associative e cooperative e istituzionali. Ai ragazzi che sono a Martina una cosa del genere non accadrà. Il 30 maggio scade la convenzione: sbattuti fuori dall’hotel, saranno in balia degli eventi, delle relazioni che sono riusciti a mettere su in questi mesi, delle persone che offriranno loro un lavoro più o meno regolare e di chi deciderà loro di affittare una casa. Dal 30 maggio, in pratica, sarò probabile vedere decine di ragazzi che non sapranno dove dormire, che mangiare, come lavarsi, cosa fare. Per questo motivo la Prefettura ha convocato un paio di settimane fa il Comune di Martina, la Provincia e alcuni enti tra cui Babele di Grottaglie, che gestisce un centro SPRAR, la Croce Rossa e la Caritas. In questa riunione si doveva trovare una soluzione immediata per il futuro dei ragazzi, e si è proposto di trovare una somma per permettere loro di andare dove vogliono, se vogliono oppure di affittare una casa per un mese. Somma che secondo Babele si dovrebbe aggirare a non meno di cinquecento euro a persona, da dividere tra Comune e Provincia. Nessuno però vuole farsi carico dell’onere, il Comune ha dato la disponibilità per diecimila euro, ma sarebbero davvero insufficienti. La Provincia è in campagna elettorale e non esistono realtà in grado di occuparsi in maniera strutturata della questione.

I ragazzi dell’hotel, di cui più della metà ha ottenuto il permesso di soggiorno, sapranno affrontare quest’altra difficoltà, dopo deserti e torture, perdere un tetto sulla testa e il cibo ogni giorno potrebbe essere un’inezia.  Ma i martinesi, sapranno conviverci?

Il buon affare dei misteriosi africani di Martina Franca

Questo articolo è stato pubblicato sull’Almanacco Clandestino di Carta il 10 Aprile 2009. Tre giorni dopo, a Pasqua, sulla Gazzetta del Mezzogiorno esce un interessante reportage sulla stessa vicenda, ma dai toni nettamente diversi.

Riteniamo importante segnalare che da quando l’articolo è stato redatto a quando è stato pubblicato la Croce Rossa si è fatta carico del documento di viaggio.

Ecco l’articolo di Carta

Quando arrivarono a Martina, ognuno aveva le proprie teorie su chi potessero essere. Alcuni dicevano fossero dei giocatori stranieri venuti in trasferta, per il calcio o per la pallavolo. Altri dicevano fossero turisti oppure studenti in gita. Nessuno aveva un’idea precisa: sarà perché erano vestiti uguali, sarà perché erano per la maggior parte giovanissimi oppure sarà stato perché le amministrazioni non hanno fatto nessun cenno alla cittadinanza riguardo questa novità. Ad un certo punto di fine ottobre ci siamo trovati in casa cento ragazzi spaesati che non sapevano dove fossero, in mezzo a persone che non sapevano chi fossero. L’unica certezza era che alloggiavano presso l’Hotel Dell’Erba, struttura alberghiera a tre stelle, che di solito ospitava congressi e qualche turista di passaggio. Attraverso i giornali si è scoperto che, a causa dell’ingente numero di sbarchi a Lampedusa, i posti nei centri di accoglienza erano terminati e il Governo, tramite le Prefetture, aveva stretto accordi con strutture private per ospitare i richiedenti asilo. In provincia di Taranto, Federalberghi aveva messo a disposizione due strutture, una a Castellaneta Marina e una, il Dell’Erba, a Martina Franca, la prima gestita dalla Caritas e la seconda dalla Croce Rossa.

La presenza dei cento africani a Martina Franca non si fa notare, fino a quando a metà dicembre il gruppo degli eritrei non organizza una manifestazione spontanea in piazza, con cartelli scritti in un italiano approssimativo, in cui chiedevano la possibilità di avere un «pocket money», oppure schede telefoniche e sigarette e, soprattutto, notizie riguardanti la loro richiesta di asilo.

La manifestazione dura pochi minuti, il tempo che intervengano le volanti della polizia per scortarli poi nell’albergo. La notizia si sparge e in breve viene convocata una conferenza stampa all’interno del centro per chiarire che le cose vanno nel migliore dei modi, e che la manifestazione è stata causata dalla pretesa degli ospiti di ottenere cose che non spettano loro. Chi parla è Domenico Maria Amalfitano, presidente del comitato provinciale tarantino della Croce Rossa, ex parlamentare DC, che spiega che la presenza e i servizi ai richiedenti asilo presso il centro di Martina Franca, sono regolati da una convenzione tra la Croce Rossa e la Prefettura di Taranto, che l’hotel è temporaneamente trasformato in Centro di Accoglienza per i Richiedenti Asilo [CARA] e che si stanno muovendo per dare agli ospiti tutto quello che serve perché possano sentirsi accolti. La prima cosa è l’assistenza sanitaria, attraverso una convenzione con la ASL. Nonostante la legge italiana lo preveda a prescindere. Tutt’apposto dunque, ci assicura il presidente, la protesta – secondo lui – nasce da un’incomprensione da parte dei ragazzi che pretendono cose che non sono previste dalla convenzione.

Questa parola, “convenzione”, in questa storia riemerge sempre più a sostituire il termine “legge”: i servizi sono offerti secondo la “convenzione”, i corsi di italiano sono fatti perché lo prevede la “convenzione”, i vestiti sono acquistati in base alla “convenzione”. Nessuno parla di legge, ma di un accordo di cui è difficilissimo entrare in possesso, magari solo di sfuggita per una rapida occhiata, giusto per capire quali sono i diritti degli «ospiti» dell’albergo. L’unica cosa che si comprende è che tutto quello che sta accadendo è di natura straordinaria ed emergenziale, ma anche che traccia un orizzonte di cambiamento nel sistema dell’accoglienza dei migranti.

Secondo i dati forniti dall’Anci nel dicembre dello scorso anno, i richiedenti asilo in Italia nel 2008 erano quasi 27 mila, triplicati rispetto a tre anni prima. Questo significa che il sistema di protezione ed inclusione che comprende i centri di prima e di seconda accoglienza, i centri di accoglienza per richiedenti asilo (C.A.R.A.), tutto il sistema dello S.P.R.A.R., non è sufficiente a rispondere all’incremento della domanda. Per questo, con il decreto del 12 settembre 2008, il Ministero dell’Interno estende lo stato di emergenza per l’eccezionale afflusso di migranti a tutto il territorio nazionale e, attraverso un’attenta ricerca sul territorio, individua circa 60 strutture da destinare a centri di accoglienza per un totale di 10.488 posti, tra cui Martina Franca e Castellaneta Marina. Nella maggior parte dei casi, questi centri sono strutture alberghiere messe a disposizione dalla categoria e dati in gestione a enti ecclesiastici e laici. Il provvedimento non è un’improvvisazione, ma sembra il rispolvero di un progetto del 1999 chiamato “Azione comune”, che aveva come capofila il CIR e come partner, tra gli altri, ACLI, Caritas, CTM – Movimondo, CISL, UIL, come finanziatori la Commissione Europea e il Ministero dell’Interno, e come obiettivo l’accoglienza dei richiedenti asilo che facevano richiesta nel nostro paese. All’epoca i numeri non erano quelli di oggi e l’esperienza di accoglienza non era ancora strutturata. Il progetto prevedeva l’accoglienza in piccoli o medi centri, assistenza sanitaria e consulenza psicologica e sociale. Proprio quello che accade nell’albergo. Ma se il progetto “Azione comune” si è poi evoluto nel sistema S.P.R.A.R., l’ordinanza del Presidente del Consiglio del 12 settembre rappresenta un evidente passo indietro.

Ad ascoltare le opinioni dei ragazzi ospitati, le mancanze da parte dell’ente gestore sono evidenti. «Non siamo animali», ci dice uno di loro, «non abbiamo bisogno solo di mangiare e di dormire». Altri invece sono convinti che la Croce Rossa si metta in tasca tutti i soldi che invece spetterebbero agli ospiti. Una convinzione scaturita dal fatto che i richiedenti asilo ospitati a Martina Franca hanno potuto comparare la loro condizione con le esperienze pregresse di amici o parenti già presenti in Italia. Non solo dormire e mangiare: «I nostri diritti sono altri», ci continua a dire il ragazzo con cui parliamo, «vogliamo sapere a che punto è la nostra pratica presso la commissione, parlare con persone esperte. Se chiediamo alla Croce Rossa, l’unica risposta è:non lo so».

Dice Enzo Pilò, dell’associazione Babele di Grottaglie, che gestisce il progetto per la rete SPRAR “Passi di donna”, che ha verificato più volte le condizioni del centro di Martina, che la mancanza più evidente è rispetto all’informazione legale: i ragazzi non sanno nulla di quello che chiederà loro la commissione territoriale, che documenti avranno, cosa prevede la legge italiana, e soprattutto non sanno che fine faranno. La Croce Rossa sostiene che l’informativa legale è stata fatta, e che un avvocato sta anche seguendo le pratiche dei ricorsi ai dinieghi. Che tipo però di informazione non lo dice, ma può essere ricostruito quanto accade confrontando ciò che dice la convenzione e quello che è stato fatto. Il documento firmato dalla Prefettura e dall’ente gestore prevede che, a parte i bisogni fondamentali, l’ente preveda anche all’assistenza sanitaria, psicologica, sociale e legale e soprattutto ad un servizio di mediazione culturale. Cosa che effettivamente avviene all’interno del centro, ma tutto fatto dai volontari della Croce Rossa e non da personale esperto o qualificato. Una ragazza che parla inglese diventa la mediatrice e un volontario che è avvocato spiega la legge sull’asilo. Una legge che dovrebbe essere distribuita all’arrivo nel centro in almeno cinque lingue diverse e che invece i ragazzi hanno avuto solo in italiano: «Ho avuto questo», ci dice un ragazzo eritreo indicando il malloppo della legge italiana sull’asilo , «ma non so cosa sia».

Dalla convenzione si evince che la spesa giornaliera per ciascun ospite è di circa cinquanta euro, qualcosa in più rispetto allo standard dei centri di accoglienza. Con questa somma l’ente dovrebbe pagare la struttura che ospita, i servizi minimi e quelli previsti dalla convenzione. L’uso del denaro però, è molto discrezionale, sulla convenzione non c’è nessun riferimento a quanto spendere per quale tipo di servizio. L’unica cosa certa è che l’Hotel Dell’Erba è molto caro ma, a quanto afferma la dottoressa Distani, capo di gabinetto della Prefettura tarantina, l’urgenza con cui il ministero ha chiesto di trovare le strutture adatte, non ha lasciato scelta. Per il resto c’è una totale libertà, con l’obbligo però della rendicontazione. Di questo ne siamo certi perché la Caritas di una parrocchia locale, si era proposta di procurare ai richiedenti dei vestiti. La risposta della Croce Rossa è stata che o erano nuovi oppure sigillati, altrimenti niente. A seguito della protesta di dicembre, a cui poi ne è seguita un’altra, dopo poco più di dieci giorni, per gli stessi motivi, la Croce Rossa ha deciso di dare piccole somme di denaro a ciascuno degli ospiti. A Natale hanno avuto quindici euro, un regalo che di tanto in tanto, senza una scadenza fissa, si ripete.

La situazione di precarietà ha prodotto delle reazioni da parte dei richiedenti asilo. A parte le manifestazioni, alcuni di loro si possono vedere in giro a Martina a fare la colletta per le sigarette, a cercare di ottenere informazioni, oppure un lavoro. In maniera diversa, anche a seconda della nazionalità, molti si sono arrangiati. Alcuni dei ragazzi del Bangladesh hanno trovato lavoro presso i fruttivendoli ambulanti, qualcuno invece vende ombrelli o borse per strada. Sull’argomento, le parole del responsabile per la Croce Rossa del centro, che ama presentarsi come colonnello Calò, sono emblematiche: “Questo è un buon ammortizzatore sociale”. Nel frattempo però alcuni di loro hanno ottenuto il riconoscimento, chi di rifugiato chi invece l’asilo politico. Il passo successivo è quello dei documenti, di cui uno fondamentale: il documento di viaggio. Esso sostituisce il passaporto e permette loro di viaggiare. Per averlo però bisogna sborsare una cifra, tra fotografie, bolli e bollettini, di più di sessanta euro. Denaro di cui è difficile che i rifugiati siano in possesso. A questo punto, secondo la prassi, l’ente gestore del centro, si accolla le spese e si prodiga a fornire informazioni. A Martina questo non è accaduto, ed è il colonnello Calò a dare una spiegazione: “Mica questa è un’agenzia di viaggio”. Per le tasse sul permesso di soggiorno invece, solo l’intervento della Prefettura ha fatto sì che fossero accollate all’ente gestore.

Poi ci sono le informazioni. La Croce Rossa sostiene di aver svolto appieno il ruolo, dichiarandosi sempre pronta a fornire agli ospiti spiegazioni e consigli. A parte la buona volontà dei volontari, questo però non spiega come mai i richiedenti asilo si sono presentati in tutti gli uffici di Martina a chiedere cosa si fa, come si fa e quando si fa, rispetto alle pratiche di richiesta di permesso di soggiorno. Sono stati più volte alla Cgil, che si è attivata prontamente, poi alla Cisl. Infine hanno trovato in un’ispettrice di polizia, che li ha presi in simpatia, una porta sempre aperta per tutte le notizie necessarie. Ma non basta. E questo lo si vede appena si arriva davanti al cancello che separa il CARA dal resto del mondo. Si crea un capannello immediato di gente che in un inglese con diverse sfumature chiede notizie, informazioni, rassicurazioni.

La convenzione è stata rinnovata di altri due mesi. Fino al 31 maggio. Poi nessuno sa che cosa accadrà, dato che i centri di seconda accoglienza sono pieni. Nessuno sa fornire una risposta, non la Prefettura che aspetta notizie dal Ministero, non la Croce Rossa che aspetta notizie dalla Prefettura. Di certo rimane che l’esperienza è stata tanto «bella» che Amalfitano pare sia in cerca nel territorio di Taranto di una struttura da trasformare in un centro di accoglienza professionale.

Chi ci guadagna dalla campagna sulla sicurezza

La campagna per la sicurezza messa in piedi da Berlusconi e i suoi accoliti, a prima vista sembra una chiara dimostrazione dell’indole neofascista del Governo, che indica, in un momento di crisi strutturale del sistema capitalista, come “untore” o causa del Male assoluto, l’Altro, l’immigrato, diverso da noi perchè vittima del proprio istinto animalesco a violare, fare del male, ma a ben guardare, non è nient’altro che un altro esempio della terribile propaganda di cui siamo vittime. Questa campagna, che può sembrare razzista ad un primo sguardo, ma che cela risvolti ancora più inquietanti che di seguito spiegheremo, è supportata da un sistema mediatico disinformativo che addirittura, come fa il Corriere della Sera tramite una delle sue penne di punta, indica nello stupro l’atto rituale attraverso cui gli Invasori, gli immigrati, dimostrano a noi (noi chi?) di aver conquistato la Patria. Evitando giudizi di merito sul concetto di Nazione, Patria, la cui a-storicità e a-scientificità riempirebbero troppe pagine, vorremmo soffermare la nostra attenzione su chi e cosa trae giovamento da questa campagna disumana. Il razzismo è una buona scusa per racchiudere alcune scelte berlusconiane, e leggere alcuni eventi in questa chiave è legittimato dalla presenza nella compagine governativa di gruppi di bovari nordici saliti al rango di deputati, ma il razzismo è un modo per solleticare la fantasia popolare e dare in pasto al suo giudizio colpevoli immediatamente riconoscibili di pesanti disagi. Se il lavoro è merce rara, secondo la formula razzista, è colpa dell’africano che lo ruba, e non perchè l’africano senza documenti e quindi senza diritti, costa meno e rende di più in termini di ricavo da parte del padrone. Il costo del lavoro è il centro della questione: se il capitale si sposta verso luoghi in cui il costo del lavoro è basso o bassissimo, i lavoratori si spostano verso luoghi in cui il costo del lavoro è più alto: gli imprenditori italiani aprono fabbriche in Romania, i lavoratori rumeni cercano lavoro in Italia. Con l’entrata della Romania nell’UE e quindi in Shengen, i lavoratori rumeni hanno avuto libertà di movimento nei paesi dell’Europa occidentale e quindi la possibilità di cercare lavoro senza la necessità di un permesso di soggiorno. Questo, è ovvio, ha svuotato di braccia la Romania e ha creato problemi ai vari imprenditori alla ricerca di manodopera a basso costo. In questa differenza tra offerta e domanda di lavoro, si inserisce la campagna mediatica contro “lo stupratore rumeno”, che non è altro che un modo per ovviare Shengen attraverso la criminalizzazione di un gruppo di individui, il cui lavoro costa di meno in patria che non in Italia. A supporto di questa tesi, ecco un passaggio dell’articolo pubblicato sulla rivista di Confindustria “L’imprenditore” di aprile dello scorso anno, in cui si intervista Marco Tempestini, presidente di Unimpresa Romania. Alla domanda dell’intervistatore: Che mercato offre la Romania agli imprenditori italiani?, Tempestini risponde, dopo aver elencato un alto numero di vantaggi, soprattutto dal punto di vista del costo del lavoro ([…] un costo della manodopera sicuramente in aumento, ma a livelli ancora bassissimi, rispetto a quelli dei paesi europei […]), parla di un “rovescio della medaglia” : “la propensione all’emigrazione sta depauperando le risorse umane a disposizione delle aziende[…]“.

Vite invisibili

I ragazzi si stanno preparando alla stagione estiva. Appena arriveranno i mesi di luglio e di agosto, centinaia di stranieri si riverseranno nelle campagne pugliesi e non è il caso di farsi trovare impreparati. Si puliscono le case, si riempiono le cisterne e si affumicano galline e pesci da offrire come rinfresco dopo una giornata passata a godersi i benefici del sole del Tavoliere. La Puglia da anni ormai è una meta privilegiata nei mesi caldi, e sia grazie ad iniziative pubbliche ma soprattutto grazie a quelle private, si sono trovate le sistemazioni adatte per accogliere chi arriva nella provincia di Foggia. Africani sub sahariani per la maggior parte, che non vengono certo a farsi la vacanza ma a lavorare. Da due anni a questa parte si conosce più o meno bene quello che accade nel Tavoliere d’estate: distese immense coltivate a pomodoro, caporali e schiavi che rischiano la vita per meno di trenta euro al giorno, e una condizione di vita che supera ogni immaginazione.

Prima dell’articolo di Gatti sull’Espresso c’è stata l’inchiesta di Medici Senza Frontiere, che per alcuni mesi ha monitorato quello che accade nel cosiddetto “circuito degli stagionali”: decine e decine di migranti che ruotano tra le regioni meridionali a seconda del periodo: il pomodoro a luglio in Puglia e in Campania, le olive a ottobre, sempre in Puglia, gli agrumi in Calabria e così via. Quindi c’è stata l’indignazione pubblica, lo sgomento e l’affrettarsi a trovare una soluzione. In breve, nell’estate del 2006, la giunta Vendola pubblica una legge che dovrebbe essere il primo passo nella lotta contro il lavoro nero e quindi verso il debellamento di un fenomeno emergenziale che macchia vistosamente la coscienza dei cittadini italiani. Il problema è che non è un’emergenza vera e propria, dato che il fenomeno si sviluppa in maniera quasi costante per tutto l’anno e soprattutto non si tratta ormai più di lavoro nero. È altro. È qualcosa che va oltre le nostre leggi e che la nostra Costituzione quasi non prevede più. E non è nemmeno razzismo, o intolleranza. Potrebbe chiamarsi schiavitù, tratta, sfruttamento. Ma queste parole non servono a descrivere quello che si vede facendo una passeggiata nelle campagne di Cerignola o di Foggia, tra Rignano e San Marco in Lamis, all’ombra del Gargano e del santuario di Padre Pio. Basta abbandonare per un po’ la statale 16 per incontrare casali che sembrano abbandonati ma che hanno panni stesi ad asciugare e vecchie berline parcheggiate fuori. Basterebbe seguire qualche trattore per entrare in un mondo che pensavamo non esistesse più. Per motivi di discrezione, data la delicatezza dell’argomento, ci asterremo dal fornire indicazioni geografiche precise, basti comunque sapere che nelle campagne in provincia di Foggia esistono veri e propri villaggi abitati da comunità di migranti stabili, che lavorano come braccianti a giornata nei latifondi del Tavoliere. Sono case uguali une alle altre, la maggior parte delle quali costruite dopo la Prima Guerra Mondiale con il fondo dell’Opera Nazionale Combattenti, quando si bonificavano quelle zone per renderle coltivabili. Sono case a due piani, alcune, dalle parti di Arpinova, oppure ad un piano, con un’ampia veranda che inizialmente serviva per mettere al riparo dalla pioggia il raccolto. Sembrano villette a schiera, ma sono invece fatiscenti costruzioni di mattoni rossi piene di crepe e quasi tutti i casi senza luce e senz’acqua. Ci accompagna in questo viaggio l’Unità di Strada dell’Oasi2 di Trani, una cooperativa sociale che lavora per conto della Regione ad un progetto di protezione sociale per chi è stato ridotto in schiavitù o è vittima di tratta, non necessariamente straniero, l’ex Art13 della legge 228 del 2003. Gli operatori dell’Oasi2 conoscono bene il dedalo di strade comunali provinciali e statali che aggrovigliano la pianura foggiana, ci lavorano da due anni quasi, e hanno preso contatto con quasi un migliaio di persone. Ognuno ha una storia a sé, anche se in molti casi si somigliano: vengono dall’Africa sub sahariana, molti passano dalla Libia e si imbarcano per l’Italia. Poi arrivano in Sicilia, oppure vengono intercettati dalle navi della marina e fatti sbarcare a Lampedusa. In entrambi i casi poi arrivano in Puglia, o con un foglio di via o perché mandati al CPT di Borgo Mezzanone. Poi, attraverso una rete di conoscenze e di relazioni, si inseriscono nel circuito degli stagionali. Ogni giorno in campagna arrivano persone nuove, e non necessariamente nei periodi di intenso lavoro. Gli operatori dell’Oasi2 lavorano in questa realtà tutto l’anno e sanno benissimo che non si tratta di un’emergenza legata a un mese, ma ad una situazione continuata. La condizione di irregolare obbliga a cercare lavoro solo in nero, e questo porta quasi necessariamente ad uno sfruttamento. I migranti nelle campagne sono funzionali al sistema economico foggiano, che si basa prevalentemente sull’agricoltura. Come ci spiega Antonella De Benedittis, responsabile dell’Area Migrazione dell’Oasi2, se non ci fossero centinaia di persone disposte a lavorare senza contratto e per pochi euro all’ora, il sistema crollerebbe. Come potrebbe crollare anche nel momento in cui dovesse passare il decreto sulla sicurezza che tramuta la condizione di clandestinità in reato. Infatti alla cooperativa si chiedono cosa accadrà nel momento in cui il Parlamento dovesse approvarlo. I loro operatori infatti non avrebbero più a che fare con persone senza permesso di soggiorno, ma con criminali e il loro lavoro potrebbe essere scambiato facilmente come un reato di favoreggiamento. Nel frattempo però l’Unità di strada continua a battere il territorio, incontrando gente e mappando le zone nello stesso momento. Il loro approccio non è di tipo salvifico (cristologico direbbe qualcuno di loro) ma mutua dal campo delle tossicodipendenze la filosofia della “riduzione del danno”. Così come non ci si deve occupare di un tossicodipendente solo quando ha scelto di non farsi più, così non si può proporre ad un diciottenne del Mali che ha appena attraversato l’Africa fino ad arrivare a vivere in un tugurio all’ombra del Gargano, di denunciare il suo sfruttatore e solo in questo caso di accedere al percorso di protezione sociale che la legge prevede. Gli operatori dell’Oasi2 quindi forniscono principalmente informazioni sanitarie e legali, non portano da mangiare, non regalano coperte, non danno biscotti. Spiegano in che modo è possibile avere assistenza sanitaria, perché la maggior parte non sa che la legge dà anche a chi è senza carta la possibilità di accedere al sistema sanitario nazionale. Non solo, ma quando il caso lo rende necessario, sono gli operatori stessi che accompagnano presso gli ospedali. Dal punto di vista legale invece, danno consigli per il modo di affrontare i padroni che non pagano o come poter denunciare il proprio sfruttatore senza essere rimpatriati. Infatti, accade spesso che quando qualcuno dei migranti si fa forza e decide di porre fine alla propria condizione di sfruttamento andando in questura per denunciare, la polizia, un po’ per ignoranza, un po’ per la pigrizia nell’attivare il percorso di protezione sociale, avvia la procedura per il rimpatrio dell’immigrato clandestino. La legge prevede, con l’ex art. 13 e soprattutto con l’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione, delle modalità di tutela di chi è vittima di sfruttamento o peggio di tratta, arrivando anche a concedere un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Uno dei problemi che l’Oasi2 si trova ad affrontare, continua Antonella, è quello della percezione del diritto e quindi anche di sfruttamento. Se noi cittadini siamo portati a sdegnarci di fronte a chi paga quattro euro a cassa i pomodori raccolti sotto il sole di luglio, e lo indichiamo come sfruttatore e come aguzzino, i ragazzi che vengono dal Mali, dal Senegal, dal Sudan invece riconoscono in lui una sorta di gratitudine, quasi, perché ha dato loro un lavoro. E un lavoro significa la possibilità un giorno di avere un permesso di soggiorno, e quindi vivere senza più la paura di essere scoperti, arrestati, rimpatriati. Non avere un permesso di soggiorno significa essere in ogni momento ricattabili da un sistema che da un lato criminalizza i clandestini e dall’altro ne ha bisogno per sopravvivere e per questo vara leggi apposta per crearli. La legge Bossi-Fini, oltre ad essere una manna per gli imprenditori del NordEst e per i padroni dei campi meridionali, perché fornisce loro manodopera a costi quasi cinesi, è una legge estremamente razzista perché considera l’immigrato solo in funzione della sua forza lavoro. Se il fenomeno dell’immigrazione è vissuto come un problema e i clandestini vengono visti come criminali, il risultato sarà sempre quello di avvantaggiare meccanismi di sfruttamento nei confronti di questi ultimi. Dalla casa, che non si può affittare senza un permesso di soggiorno, al contratto di lavoro, che non si può stipulare se non si ha una casa. Questo alimenta un mercato rigoglioso che sfrutta la condizione di clandestinità che rende ricattabili le persone.

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Lo Scudo dell’Unità di strada si ferma alla prima casa. Gambia ha appena finito di affumicare insieme pesce e pezzi di galline, che poi venderà quando arriverà la stagione dei pomodori. Al tavolo, sotto la veranda è seduto Papas, un polacco che assomiglia incredibilmente a Wojtyla. Non è andato a lavoro oggi, il padrone non aveva bisogno di lui, quindi è andato a trovare un amico. Fuori dalla casa, sulla strada, Medici Senza Frontiere ha posizionato alcune cisterne da duemila litri ciascuna che il comune di Cerignola si è impegnato a riempire di acqua potabile due volte a settimana. Infatti, appena dopo il nostro arrivo, si ferma l’autobotte con l’acqua. Uno dei due operai, Peppe, ci tiene a dirci che non solo provvede a mettere l’acqua nelle cisterne, ma si preoccupa pure di riempire i bidoni che hanno gli abitanti della zona. Ma nelle case non manca solo l’acqua: non c’è corrente, non c’è fognatura. Ci spostiamo poco più avanti, in un’altra abitazione dove sono da poco tornati dalla campagna. Qui ci abitano una decina di senegalesi. Molti di loro non hanno il permesso di soggiorno e Saber e Valentina spiegano che possono comunque accedere ai servizi sanitari tramite l’STP (Straniero Temporaneamente Presente: un codice fornito dalle Asl per accedere al SSN) . Distribuiscono i volantini con il recapito dell’Unità di strada e la mappa di Foggia, dove sono segnati i luoghi dove trovare da mangiare, da vestire e da dormire, dove ci sono gli ambulatori e la sede della Caritas. Lo Scudo passa avanti, le case sono molte ed è difficile riuscire a coprire una zona in un solo pomeriggio. In alcune abitazioni abitano in dieci, in altre di meno. Dipende, crediamo di capire, dal ruolo che ha chi vi abita. Un caporale, cioè un intermediario tra il padrone e i lavoranti, vive con meno gente, la sua casa ha più comodità. Egli provvede ad accompagnare i ragazzi in campagna e a comprare da mangiare e da bere da rivendere a chi torna dalla campagna. Possiede di solito una macchina, e ha un contratto di lavoro che gli permette di avere un permesso di soggiorno. Nella scala gerarchica delle campagne è a metà tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Trova manodopera e in cambio ha un contratto. Gestisce il prezzo delle casse di pomodoro o della paga oraria. Il caporale può permettersi comodità che gli altri non possono: oltre a dividere il tetto con meno gente, può permettersi un gruppo elettrogeno per l’elettricità, e quindi avere una televisione o una radio, o entrambe. Egli può essere considerato sfruttatore solo nella misura in cui guadagni dei soldi con il lavoro degli altri. Ma condivide con gli altri una condizione di disagio estrema. Vive come gli altri in vecchie case fatiscenti, pronte a crollare, senza nessun tipo di servizio, senza riscaldamento per i periodi freddi. Abita anch’egli in quelle città invisibili che sono sparse nelle campagne del foggiano, comunità stabili di ultimi che sono funzionali ad un sistema che non li accetta ma li sfrutta.

L’Unità di strada ha effettuato più di un migliaio di contatti nel 2007 (compresa la stagione di raccolta dei pomodori) e circa duecento nei primi mesi del 2008. Molte delle persone arrivano solo per la stagione estiva e poi ripartono. Tra chi rimane, col tempo, sono nate delle coppie, alcune anche miste. Alcuni dei ragazzi africani convivono con ragazze dell’Europa dell’est da cui hanno avuto dei figli. Nelle città invisibili gli abitanti cambiano, ruotano come i flussi di migranti che arrivano in Italia. Prima degli africani c’erano i bulgari, i rumeni e i polacchi, e prima ancora c’erano degli albanesi. Ce lo dicono le scritte lasciate sui muri: in una casa dalle parti di Arpinova campeggia a lettere maiuscole la sigla VFLP (Vdekje Fashizmit Liri Popullit, una sorta di motto dell’Albania socialista che recita: Morte al Fascismo e Libertà al Popolo).

Al tramonto lo Scudo torna verso Trani, lasciando le città invisibili alla loro notte. Esse non scompaiono nel buio, esistono sempre, anche se non vogliamo vederle.