È peggio essere Rom, omosessuali o disabili?

Presentata a Reggio Emilia una ricerca svolta tra gli adolescenti pugliesi. Tutt’altro che confortanti i risultati.

Un gruppo di antropologi, pedagoghi, formatori, studiosi del linguaggio e della comunicazione, tra cui il martinese Alberto Fornasari, hanno per un anno indagato un campione di adolescenti italiani, approfondendo le paure e le aspettative di una fetta di popolazione italiana che, secondo i dati dell’Eurobarometro, è quella che più si sente esclusa dalla società. Il venti per cento, dicono i dati, che sono simili a quelli della Bulgaria. Il campione della ricerca, scelto in base ai dati della presenza di migranti e agli indici di integrazione del V Rapporto CNEL ha compreso anche le quarte classi di quattro scuole pugliesi, due licei e due istituti professionali, a Bari e a Lecce.

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“Il sazio non conosce la fame”

A Grottaglie la festa per la fine del Ramadam occasione di incontro e integrazione.

GROTTAGLIE – Hiba sorride orgogliosa mentre posa il piatto sulla tavola apparecchiata. Il tutbia, il riso con mandorle tostate, uva passa e carne non solo ha un buon sapore, ma è bella anche la presentazione: sembra una montagna caramellata di pinoli. Tra i tavoli pieni di gente nella piazzetta davanti al centro Passi di Donna di Grottagle, il riso di Hiba sta spopolando: c’è un andirivieni fitto di persone che fanno la spola tra la tavola e la propria sedia.

Un momento della festa

Un momento della festa

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Il sindacato sta in campagna

Il fenomeno della raccolta del pomodoro e la campagna Oro Rosso della Flai – Cgil

(le foto sono disponibili qui)

La  Flai – Cgil batte la campagna foggiana palmo a palmo. La campagna “Oro Rosso” è ormai al nono giorno e con i paesaggi del Tavoliere ormai c’è una certa confidenza: le strade si intersecano ad angolo retto e, a parte il Gargano di paesini e santuari, i paesaggi sono piatti fino all’orizzonte, una distesa di campi e latifondi e lavoratori piegati. La delegazione sindacale è numerosa, per questo è divisa in due gruppi. La nostra colonna è guidata dal capolega Flai di San Severo e da alcuni militanti della stessa città: l’Opel si muove nelle strade di campagna zigzagando per evitare le buche e dal finestrino sventola orgogliosa la bandiera rossa della categoria. La prima sosta è ad una fermata autobus dove almeno quaranta ragazzi africani aspettano il passaggio per andare a Foggia a cercare lavoro. Siamo in aperta campagna, tra il capoluogo e San Severo. I ragazzi si sorprendono un po’ nel vedere una ventina di persone scendere dalle auto e avvicinarsi sicuri verso di loro, si guardano perplessi e impauriti. Ma si iniziano a distribuire cappellini per proteggersi dal sole, volantini in tutte le lingue dove si spiega quanto dovrebbero guadagnare al giorno secondo il contratto nazionale, quali sono i loro diritti, cos’è la Cgil. E non si dà nulla per scontato. Molti di loro vengono direttamente dai campi di identificazione ed espulsione, da Lampedusa. Catapultati nell’Italia estiva, afosa e repressiva, con i loro compagni si sono uniti alle decine di migliaia che lavorano ai pomodori. Un ragazzo parla francese e inglese, niente italiano. E si lamenta, ci dice, di non aver incontrato nessun italiano con cui poter comunicare in quelle lingue. Ci parla a lungo, si lamenta della paga, delle condizioni.

Arriva il pullman che li porterà a Foggia, senza dire una parola salgono, sollevati che la promiscuità col sindacato più grande d’Italia, e più fastidioso, per i padroni, sia finita.

In macchina, con Daniele Calamita, segretario Flai di Foggia, Lello Saracino, Tesfai Zemariam e Vito Di Bari, si discute naturalmente del caporalato, dell’iniziativa della Flai che quest’anno è alla terza edizione e che ha avuto l’appoggio della categoria e della Cgil regionale e nazionale. «Il problema è che la legge regionale sul lavoro nero non viene applicata» ci dice Lello Saracino della Cgil di Foggia «se lo fosse, il problema in gran parte si risolverebbe. È una legge che introduce l’indice di congruità, un concetto semplice ma molto efficace, soprattutto per l’edilizia e per l’agricoltura. Si fa una stima del tempo e del luogo dove si deve svolgere il lavoro e poi si quantifica il minimo di addetti necessari. Se ad esempio si devono raccogliere cento ettari di pomodori in dieci giorni, è chiaro che non posso assumere solo tre persone. Le associazioni datoriali, come Cia e Coldiretti si sono messi di traverso e la legge non viene applicata».

Nel frattempo autoarticolati carichi di cassoni vuoti ci superano, siamo nel pieno della raccolta dei pomodori e si vede.

La carovana si ferma in una grande casa bianca, mezza sembra un ufficio e mezza un’abitazione. Si vedono alcune persone in procinto di andarsene, nello spiazzo davanti un grosso camion pieno di cassoni vuoti. I delegati si avvicinano, chiacchierano e distribuiscono volantini e cappellini. Il padrone, italiano, pare abbastanza cordiale, ci racconta cosa fa e quali sono i suoi problemi. Il punto della questione è chi davvero si arricchisce dall’agricoltura, da dove viene il rincaro che permette ad un chilo di pomodori di passare da dieci centesimi per il produttore all’euro del consumatore. Poi si parla del lavoro degli immigrati e delle loro condizioni. L’italiano ci racconta che ospita i rumeni che lavorano per lui nei campi. Ma ha problemi, ci dice, la legge non lo aiuta: non capisce perché non può portare otto persone nella macchina. Dietro di lui infatti si sta consumando il grottesco spettacolo di otto persone che si ficcano in una vecchia station wagon bianca della Fiat a cui sono stati tolti i sedili posteriori. Otto persone schiacciate nel caldo dell’agosto pugliese, in un’auto che finge di essere un furgone. Tesfai Zemariam, il responsabile regionale per immigrazione della Cgil, interviene proponendo la ragionevole soluzione di fare più viaggi, invece che uno solo. La discussione degenera, perché si tirano in ballo le regolarità dei loro contratti lavorativi e le condizioni in cui lavorano. L’italiano allora decide che è arrivato il momento di mandarci a quel paese, ma in testa gli rimane il cappellino rosso della Flai “stesso sangue stessi diritti”.

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Secondo Felice di Lernia, presidente della Coop Sociale “Comunità Oasi2 San Francesco” di Trani, che da anni è sulle strade della provincia foggiana per conto della Regione Puglia nell’ambito del progetto “Le città invisibili”, le presenze quest’anno sembrano raddoppiate. «Il motivo principale è la crisi economica. Le fabbriche del nord che chiudono costringono migliaia di persone a scendere in Puglia d’estate a lavorare nelle campagne, ma il lavoro diventa sempre di meno anche qui in Puglia, a causa dell’avvento delle macchine. Le persone che contattiamo ci dicono che il momento migliore per lavorare è quando piove, perché il fango impedisce alle macchine di muoversi».

Intanto ci fermiamo in contrada Cicerone, vicino ad una chiesetta sconsacrata, ultima costruzione di una fila di case dell’Opera Nazionale Combattenti, uno strumento un tentativo fascista di urbanizzare le campagne. Ci sono un gruppo di ragazzi che oggi non lavorano. Invitano la delegazione sindacale a fare un giro. Dormono, alcuni in tenda, altri all’aperto e dal numero di indumenti appesi nel grosso stanzone che fa da tetto comune, le persone che incontriamo non devono essere che la minima parte di tutte quelle abitano lì. Su una panchina c’è una scacchiera e dei tappi di bottiglia rosa e rossi che fanno da pedine. Fuori, verso la strada, ci sono alcuni bagni chimici messi dal comune e tre enormi botti per l’acqua potabile. Vuote. Come lo è la chiesa, alta grande e fresca, ma che per rispetto, ci dicono, non viene utilizzata. Poco più avanti un imprenditore italiano chiacchiera dalla sua BMW con un ragazzo africano. Alle sue spalle una casa dell’ONC affollata di persone che anche oggi non hanno lavorato. Alla vista della Cgil, l’imprenditore inizia a ripetere la solita cantilena: crisi, agricoltura, costo all’ingrosso, costi al dettaglio, le paghe basse sono necessità. Massimo sei euro a cassone, da tre quintali, da cui si detraggono le spese per lo spostamento dovute al caporale.

Una storia che è diventata quasi parte integrante della narrazione pugliese, il mare del Salento, i trulli della Valle d’Itria e la raccolta dei pomodori a Foggia. Un fenomeno che secondo alcuni operatori sociali andrebbe analizzato anche al di là delle categorie con cui si è soliti riflettere del problema. La raccolta dei pomodori, vetrina di un fenomeno che dura tutto l’anno e in diverse località d’Italia, è il simbolo dello sfruttamento ma racchiude un mondo che probabilmente si evolve secondo altre metriche da quelle classiche. Un fenomeno che da qualche anno ha stimolato positivamente tutti i soggetti tenuti ad occuparsi della questione, enti locali, privato sociale e forze sindacali, ma che nonostante gli sforzi rimane abnorme. Forse la sinergia tra i soggetti operanti sul territorio andrebbe implementata, favorendo il passaggio di buone prassi e di contenuti, e lo scambio di esperienze. Che rimane comunque sentito da tutta la Cgil: basti pensare che all’operazione Oro Rosso partecipavano delegati da 18 regioni, da Bolzano alla Sardegna. Una delegazione che in dieci giorni ha percorso 8000 km, ha contattato quasi 5000 persone e visitato 150 aziende agricole.


In nome di Padre Pio…

Un momento della benedizione della statua di Padre Pio donata dalla famiglia Cassano alla città di Martina Franca

Un momento della benedizione della statua di Padre Pio donata dalla famiglia Cassano alla città di Martina Franca

Da pochi giorni a questa parte, in città sta accadendo un fatto non troppo bello: la polemica sulla nuova statua di Padre Pio è degenerata in una battaglia a colpi di comunicati stampa tra il PDCI di Martina Franca e i dipendenti della General Trade. In questa impari lotta, i giornali locali hanno avuto un ruolo determinante nella demonizzazione del partito a favore della causa di Cassano e dei suoi dipendenti. Quello che è accaduto dimostra che per trovare giornalisti embedded non c’è mica bisogno di andare in Afghanistan al fronte con i marines, basta farsi due passi sullo stradone la domenica mattina. Non è accettabile ulteriormente la maniera in cui la realtà viene distorta. Probabilmente, ci piace pensare, non è possibile esercitare la professione della verità in realtà molto piccole e spesso compromesse come quella di Martina Franca. Probabilmente non è volontà personale inzerbinirsi al punto di rendersi complici del male in cui si dibatte la città.

Per questo, per dovere di cronaca, pubblichiamo integralmente il comunicato stampa del PDCI di Martina Franca, per fornire uno strumento di discernimento ai tanti a cui sta ancora a cuore la sorte di questa società.


“Scherza con i fanti ma lascia stare i santi!

E così la famiglia Cassano, benefattrice della comunità martinese, in quanto con le sue aziende dà lavoro a migliaia di persone, ha donato alla collettività la statua di Padre Pio, sistemata in una piazza centrale della nostra amena cittadina. Precisamente lì dove una volta sorgeva “l’incantevole” palazzone sede del mercato coperto, poi caduto in disuso ed in seguito fatto abbattere, un po’ di anni fa, trasformando appunto l’area in una simpatica piazzetta, da una solerte amministratrice comunale, proprietaria di immobili ubicati guarda caso proprio lì, che acquisivano così notevole valore economico.

La cerimonia, con tanto di banda, santa messa e benedizione del monumento, è stata naturalmente preceduta da affissione di manifestini pubblicitari dell’iniziativa, in cui si sottolineava che  l’opera, era appunto un dono della famiglia più ricca (forse) e famosa di Martina Franca.

Come nel medioevo, quando grazie ai mecenati, alle grandi famiglie che dominavano nei vari staterelli,in cui era divisa l’Italia, si finanziavano opere di pregio e grande valore artistico per il solo gusto di lasciare un segno della propria potenza.

Allora, Chiesa e Nobiltà si spartivano potere e privilegi, dominando su un popolo dalle precarie condizioni di vita, preda della superstizione e dell’ignoranza; oggi, in condizioni completamente diverse, ma con una crisi che colpisce soprattutto i ceti meno abbienti, chi detiene il potere economico si ingrazia la Chiesa e utilizza la fede religiosa, per continuare a ricavare profitti ingenti sulla pelle di chi, affamato di lavoro, accetta di svendere la propria forza lavoro e di essere sfruttato ogni giorno per nove, dieci, undici ore, con un salario di fame. Tanto se qualcuno decide di andare via, altri dieci sono pronti a prendere il suo posto. Anche perché, se non lavori da Cassano, a Martina, dove lavori? Da Scatigna, o in qualche ditta di confezioni, nelle stesse condizioni: con la lettera di licenziamento già firmata all’atto dell’assunzione ed una busta paga regolare “sulla carta” ma con un salario reale di 500 euro, se ti va bene.

D’altronde che ci vuoi fare? Occorre fede nel Signore e cristiana rassegnazione. Così va il mondo. Con l’aiuto del Signore si andrà avanti. Dopotutto i santi servono proprio a questo. Quando si è in difficoltà basta una preghiera a qualche santo e … speranza che tutto si aggiusti per il meglio.

Chi meglio di padre Pio? Anche la famiglia Cassano si rivolge a Lui per continuare ad accrescere il suo patrimonio. E la devozione ora è molto più grande dopo aver fatto sistemare la statua in quella pubblica piazza.

Sorgono una serie di obiezioni. Se veramente si voleva fare del bene alla collettività, perché non provare a far lavorare in modo giusto e regolare i propri dipendenti, con orari e paga regolari, secondo quanto prevedono i contratti stipulati con le organizzazioni sindacali? Forse così facendo la famiglia Cassano verrebbe veramente ricordata con stima in quanto imprenditori illuminati.

Inoltre se proprio si voleva una statua di Padre Pio, perché non metterla nel luogo più consono che è quello all’interno di una chiesa? Possibilmente senza tanta pubblicità e con una certa discrezione e riservatezza che è quanto ogni fede religiosa prescrive.

A proposito, se domani a qualcuno venisse in mente di far mettere una statua di Budda in Piazza XX Settembre, con che scusa si dovrebbe negargli il permesso?”

Ecco invece cosa scrive la Gazzetta del Mezzogiorno martedì 28/07:

“MARTINA DOPO L’INAUGURAZIONE DI SABATO

Ancora polemiche e proteste sulla statua di Padre Pio collocato in piazza Umberto

[A.Q.]

• La statua di padre Pio inaugurata sabato sera a Martina in piazza Umberto porta con sé ancora delle prese di posizione. Un cittadino, Martino Tulipano, in realtà lo aveva fatto sabato sera stesso con un cartello esibito proprio mentre era in corso l’inau – gurazione. Avrebbe preferito, Tulipano, che «una piazza storica non venisse occupata con questa statua che si poteva mettere altrove». Nel suo manifesto Tulipano ribadisce, come da tempo fa con le sue iniziative di protesta, la necessità di tornare a provvedimenti nel pieno della legalità e fa un esempio: quello della costruzione di palazzi che hanno di fatto ostruito l’affaccio alla Valle d’Itria dalla zona Spirito santo.
Ma un attacco duro all’iniziativa viene dai Comunisti Italiani (sezione Gramsci) che parlano praticamente di una iniziativa medioevale e, dal loro punto di vista, anche delle condizioni lavorative e salariali dell’impresa che ha finanziato l’acquisto della statua. Dice il Pdci di Martina: «Se proprio si voleva una statua di Padre Pio, perché non metterla nel luogo più consono che è quello all’interno di una chiesa? Possibilmente senza tanta pubblicità e con una certa discrezione e riservatezza che è quanto ogni fede religiosa prescrive. A proposito, se domani a qualcuno venisse in mente di far mettere una statua di Budda in piazza XX Settembre, con che scusa si dovrebbe negargli il permesso?»
Fatto sta che sabato sera in piazza c’erano parecchie persone a quella inaugurazione e non è infrequente vedere, in questi giorni, gente di ogni età fermarsi davanti a quella statua per dire una preghiera. C’è la libertà di protestare, c’è quella di essere devoti. E di devozione ha parlato nel suo discorso il sindaco Franco Palazzo nell’accogliere il monumento. Che sarà di impatto visivo inadeguato secondo alcuni, o di inadeguato rispetto nei confronti dei non credenti secondo altri, ma ora c’è e ai fedeli la cosa piace”.

A questo punto chiunque si incazzerebbe…

Il distretto dove lo metto?

Nulla di fatto per la sede del distretto sociosanitario: la ASL chiede chiarimenti e nel frattempo si aspettano i risultati della gara d’appalto.

L’ingegnere della Asl rischiava di fare la fine della sposa di Pulsano: tre quarti d’ora ad aspettare che qualcuno del Comune si facesse vivo. Tre quarti d’ora al sole in via Ceglie in attesa che l’ingegnere Ceppaglia si presentasse all’appuntamento preso davanti all’assemblea di cittadini, sindacati e associazione il giorno prima, durante l’animata riunione sulla sede del distretto sociosanitario. «Ci vediamo all’una domani, così vediamo insieme l’area e firmiamo le carte!», così concluse l’incontro il sindaco Palazzo, finalmente contento di un accordo. Il giorno dopo però all’incontro si presentano un geometra comunale e il consigliere Emiliano Nardelli che indicano ai tecnici ASL la particella scelta ma non presentano alcuna documentazione riguardante: niente planimetrie, niente mappe, niente riferimenti. I tecnici tornano a Taranto con un pugno di mosche e immediatamente parte nei confronti del Comune una lettera in cui si pretende della documentazione dettagliata. L’ufficio tecnico afferma di aver inviato il materiale ma agli uffici della ASL non è ancora pervenuto nulla. Moschettini ci dice: «Non è possibile prendere una decisione in merito senza avere delle carte: l’area che ci hanno fatto vedere non mi sembra tutta edificabile, ci sono dei canali e in mezzo ci passa una strada». Per la costruzione della sede del distretto infatti, l’ASL ha chiesto un terreno di almeno dodicimila metri. La costruzione sarà finanziata dai fondi FESR, europei, e Martina è l’ultimo comune a rispondere alla chiamata. In realtà già da dicembre i tecnici fanno sopralluoghi: il primo al Pergolo, dalle parti del Palazzetto dello Sport, ma anche lì i tecnici hanno chiesto delle carte che non sono mai arrivate. Dopo qualche mese il comune convoca la cittadinanza, le associazione e i sindacati a decidere insieme di portare il distretto a Monte Tullio. La scelta “condivisa” salta perché si fanno notare le difficoltà di collegamento con l’area scelta, che dista almeno tre km da Martina. La riunione viene aggiornata con la promessa che il distretto non sia un episodio, ma venga inserito in una riflessione globale sui servizi comunali. Infatti il 7 luglio scorso viene nuovamente convocato un incontro per comunicare alla città di aver trovato la soluzione: Ortolini.

E siamo punto e daccapo: i sindacati fanno notare che comunque la struttura è lontana dal centro e quindi la natura stessa della sede del distretto sociosanitario viene meno. La discussione si fa animata: Colasanto, il dirigente dell’ASL di Taranto fa sapere che non possono esprimere un giudizio su qualcosa appresa pochi minuti prima e quindi chiede un sopralluogo, il cui seguito è noto.

Per la costruzione della sede i tempi previsti, secondo i tecnici dell’ASL è di almeno tre anni, nel frattempo quindi l’Azienda Sanitaria stanzia dei fondi per l’affitto di un immobile che ne faccia temporaneamente le veci. Alla gara si presentano i tre. In una nota scritta del 21 maggio scorso, la ASL chiede al Comune di Martina di esprimersi relativamente all’agibilità pedonale del ponte sulla ferrovia, in riferimento alla gara. Il comune, con una nota a firma del dirigente ai Lavori Pubblici del 10 giugno dice: “si comunica che la struttura è fruibile sia dal punto di vista del transito veicolare sia del transito pedonale”. La nota non fa riferimento ai trasporti pubblici e inoltre è in evidente contrasto con quanto affermato nel 1994 dal commissario straordinario Di Caprio riguardo all’agibilità. All’epoca della costruzione del ponte infatti, fu fatto notare che i passaggi pedonali erano troppo stretti (citando testualmente: “varia da un minimo di 48 cm ad un massimo di 54 cm […] risultando la larghezza utile del marciapiedi notevolmente inferiore agli standards minimi di legge”). Per lunedì è comunque prevista la risposta della commissione sulla gara.

Tornando all’area destinata per il distretto, secondo il PRG martinese, le aree destinate a servizi che abbiano un’estensione di almeno dodicimila metri quadri sono diverse, oltre quelle presentate dall’amministrazione, e alcune di loro sono addirittura nella città: la zona Votano, l’area alle spalle della Madonna della Sanità e la zona a ridosso di Via Gramsci nel quartiere Carmine, solo per citarne alcune. Perché non pensare ad alcune di queste come sede del distretto?

Quello che rimane, infine, è il rischio che il distretto sociosanitario Martina Franca – Crispiano rimanga senza sede, a differenza di tutti gli altri comuni jonici che per tempo hanno risposto alla chiamata della ASL.

PS: mentre scrivevamo, siamo venuti a conoscenza dell’autocandidatura a sede del distretto da parte dell’Hotel Dell’Erba, con una lettera indirizzata al sindaco Palazzo, alla ASL e ai sindacati.

FLORIDO VINCE: GOVERNARE CON LA TESTA O GOVERNARE CON LA DESTRA?

L’asse D’Alema – Casini mostra i primi risultati: allearsi con la destra per sconfiggere le destre.

Florido ha mantenuto il controllo della Provincia. Per farlo ha dovuto, al secondo turno, allargare la propria coalizione a Fisicaro e a Stefàno e a pezzi del gruppo che sosteneva Tarantino. Ha realizzato, con questo schema, quel “laboratorio” scaturito dall’asse D’Alema – Casini, una sorta di fronte democratico contro la deriva berlusconiana della società, e ha dimostrato che l’alleanza di tutti i partiti in funzione anti PdL funziona. Cioè, il gruppo eterogeneo di simboli e personaggi riesce a prendere più voti che i partiti della maggioranza di Roma. Il genio di D’Alema però sembra sprecato in quest’operazione, dato che sarebbe bastato fare una semplice somma delle percentuali delle singole sigle per capire che Berlusconi e i suoi in Italia hanno tutto fuorchè la maggioranza. La scommessa di questo “laboratorio”, che vince  anche a Bari città, si basa essenzialmente nel creare una sorta di gramsciano “blocco democratico” per contrastare l’avanzata delle destre populiste e autoritarie.

Della bontà del progetto, del suo nobile fine, non si hanno dubbi: il CLN metteva insieme democristiani e comunisti, oltreché liberali e repubblicani, riuscendo infine a scacciare i fascisti, ma sul fondo giace una forte differenza tra il ’43 e il 2009. Nel secolo scorso la crisi dello stato di diritto era fortemente sentita, accentuata dall’entrata in una guerra suicida al fianco di un dittatore sanguinario. Gli italiani erano sì disperati, ma erano anche educati attraverso sotterfugi ai divieti di parlare di politica da parte del regime a raggrupparsi, a pensare collettivi ad essere comunità. Ora invece, grazie alla parcellizzazione della società che sostituisce la playstation alla sala giochi, internet ai circoli di partito, la sensibilizzazione delle masse è difficile e la creazione di un reale fronte democratico è un’impresa ardua. L’operazione Florido, in cui dalla sera alla mattina affianco delle falci e martello c’erano scudi crociati ed ex della Fiamma Tricolore, non sembra basarsi su una reale discussione politica che mette alla base del compromesso il male minore, ma ha l’aria di essere una mera addizione di cifre per mantenere il sedere sulle poltrone. Che questo poi significhi evitare di consegnare la Provincia a Fitto e ai suoi, diventa conseguenza e non fine. Pare. Stando alle dichiarazioni dei diretti interessati non è così. Pasquale Lasorsa, consigliere comunale di Martina, candidato nella lista Io Sud, un passato alla destra di AN, e un primo turno alle provinciali a fianco di Cito, schierarsi con Florido è: «La scelta migliore, dato che a livello locale le ideologie del novecento possono essere messe da parte in nome del bene comune. È ovvio che non era possibile appoggiare una coalizione che comprende i diretti responsabili del dissesto di Taranto e della situazione squallida in cui versa Martina Franca». L’alleanza in nome del buongoverno, che mette da parte le differenze per lavorare insieme al bene comune. Ma quale? È impossibile pensare che non ci siano differenze tra il piano regolatore pensato dalla corporazione degli imprenditori edili da quello degli ambientalisti. Ed è solo un esempio. Non vorremmo essere nei panni di Florido quando dovrà nominare gli assessori.

Francesco Brigati, di Rifondazione Comunista, che ha scelto dopo l’ingresso dell’Udc e di Io Sud di passare all’opposizione, fa un’analisi diversa della questione, partendo dalla pratica attuata per l’apparentamento: «Noi non eravamo per niente d’accordo all’entrata dell’Udc nella coalizione, lo abbiamo ripetuto fin dalle prime riunioni. Ma nonostante la lealtà dimostrata a Florido e alla coalizione, la notizia dell’apparentamento ci viene comunicata a cose già fatte. Questo dimostra che l’alleanza non è in base a convergenze politiche, ma è un gioco di potere per mantenere le poltrone»

Il gioco di potere sarebbe stato quello di fare un’iniezione di destra in un centro sinistra che non riesce a vincere, appesantito da un PD che non sa se è pesce o carne, e dai piccoli feudi personali da difendere ad ogni costo. Un’iniezione che lungi dall’essere vaccino contro l’avanzata delle destre, somministrando un poco di esse per creare anticorpi, si dimostrerà invece una diffusione dei loro antigeni.

Da quaggiù invece, il dato più allarmante rimane comunque l’astensionismo, fortissimo e ormai in ascesa, che dimostra il disagio dei cittadini, di chi non è ricattato, di chi non è fortemente ideologizzato, di non sentirsi più rappresentato da nessun partito, da nessuna coalizione, da nessun politico. È l’altro lato della medaglia che vuole che i politici siano solo buoni amministratori, burocrati imperiali, impiegati di sportello del sistema e dall’altro la massa critica dei cittadini che, avendo già capito questo, non si scapicollano per andare a votare chi avrà solo il compito di firmare e timbrare fogli. È la cancrena di un regime che si sta afflosciando sulle sue stesse regole. L’astensionismo, il disagio dei cittadini di cui è campanello d’allarme, pretende altre forme di partecipazione, più libere, democratiche, che facciano diventare le esigenze territoriali non già argomenti scontati sull’ampiezza di una strada ma discussioni sul futuro dei territori.

I cittadini sono più avanti, e si stanno iniziando a stancare di aspettare che i propri rappresentanti li raggiungano.

E PER CASA UN TETTO DI STELLE

Dopo sei mesi scade la convenzione tra la Prefettura e la Croce Rossa. Nessun futuro certo per i rifugiati ospitati presso il Dell’Erba di Martina Franca.

Dopo sei mesi di permanenza discreta, i cento richiedenti asilo ospitati presso l’Hotel Dell’Erba di Martina andranno via. Così come al loro arrivo, improvviso e silenzioso, così alla loro partenza, decretata per la scadenza della convenzione tra la Croce Rossa, che gestisce il centro e la Prefettura, che paga da parte del Governo, tutto accadrà nel silenzio più perfetto.

Strana storia quella dei migranti martinesi, che all’inizio non sapevano nemmeno dove fossero ed erano circondati da persone che nemmeno sapevano chi fossero. Erano vestiti tutti uguali e giravano per la città lungo Corso Italia e tutti li scambiavamo per una squadra di pallone. Poi iniziarono a girare alcune voci sulla loro reale identità fin quando a metà dicembre non decidono di manifestare in piazza per chiedere più diritti. Dopo due settimane di permanenza a Martina Franca un gruppo di loro capisce che c’è qualcosa che non va: vengono convocati i giornalisti e con gran pacche sulle spalle ci viene comunicato che è tutt’apposto. Tutt’apposto perché i manifestanti sono ragazzi, che bisogna capirli, che non hanno capito come funziona la questione, che non dipende da noi, ma da altri, che noi già abbiamo fatto di più di quello che ci spettava. Già, ma cosa?

Con l’ordinanza del Presidente Berlusconi del 12 settembre del 2008, vengono istituiti dei CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo) supplementari, in ausilio del sistema presente perché il numero degli sbarchi durante l’estate è nettamente aumentato. L’ordinanza prevede che si trovino delle strutture, in tutto il paese saranno una sessantina, per ospitare diecimila migranti in attesa che la domanda di asilo venga vagliata dalle commissioni territoriali. Un implemento dell’accoglienza notevole, con una spesa complessiva di milioni di euro. La convenzione tra la Croce Rossa di Taranto e la Prefettura prevede una spesa giornaliera di 47 euro a persona, che dovrebbe comprendere vitto alloggio e tutti i servizi che il Ministero dell’Interno prevede per una buona accoglienza: mediazione interculturale, mediazione linguistica, corsi di lingua, supporto legale, supporto socio psicologico, assistenza sanitaria, acquisto di vestiti e di beni di prima necessità. In sei a Martina è arrivato circa un milione di euro con cui la Croce Rossa ha reso possibile l’accoglienza dei migranti.

L’ordinanza del 12 settembre però, è in deroga a tutta la legislazione italiana sull’immigrazione: l’incremento degli arrivi ha fatto scattare un’emergenza che, per essere risolta, il Governo decide che la legge normale non basta. I centri governativi di accoglienza, che poi assumono lo status di CARA, vengono aperti in fretta e furia e affidati alla gestione di enti, per la maggior parte ecclesiastici, senza nessuna gara di evidenza pubblica, vengono assegnate delle somme abbastanza alte (di solito per l’accoglienza dei migranti la somma quotidiana procapite è nettamente inferiore) e si lascia tutto al buon cuore di chi gestirà il posto, perché la convenzione non specifica i capitoli di spesa, non dice quanto viene riconosciuto alla struttura ospitante (in questo caso il Dell’Erba), non dice quanto bisogna spendere per i corsi di italiano, per esempio. E soprattutto non prevede una rendicontazione finale, in base alla quale verificare le spese. Diventa probabile che una cosa del genere si possa trasformare in un affare lucroso, se non conoscessimo le pie intenzioni degli enti che si fanno carico della questione, basterebbe avere a disposizione dei volontari anche non qualificati che lavorino gratis, acquistare materiale di scarsissima qualità, ad esempio scarpe da ginnastica che durano meno di dieci giorni, affidarsi per i corsi di italiano a insegnanti in pensione, e qualcosa in tasca rimane.

A questo però si deve aggiungere che i soldi stanziati dal Governo per l’accoglienza dei rifugiati, sono solo per la prima accoglienza, per i CARA, mentre a tutta la rete SPRAR, che gestisce i centri di seconda accoglienza, fondamentali per l’inclusione e l’integrazione, vengono tagliati i fondi. Il migrante in pratica arriva in Italia, viene lavato stirato controllato e interrogato e infine marchiato buono o cattivo. Poi viene sbattuto in strada al suo destino, con pochissime prospettive di sopravvivenza legale. I centri SPRAR servivano appunto ad accogliere i rifugiati e a trovar loro casa e lavoro, con l’attivazione di una rete di realtà associative e cooperative e istituzionali. Ai ragazzi che sono a Martina una cosa del genere non accadrà. Il 30 maggio scade la convenzione: sbattuti fuori dall’hotel, saranno in balia degli eventi, delle relazioni che sono riusciti a mettere su in questi mesi, delle persone che offriranno loro un lavoro più o meno regolare e di chi deciderà loro di affittare una casa. Dal 30 maggio, in pratica, sarò probabile vedere decine di ragazzi che non sapranno dove dormire, che mangiare, come lavarsi, cosa fare. Per questo motivo la Prefettura ha convocato un paio di settimane fa il Comune di Martina, la Provincia e alcuni enti tra cui Babele di Grottaglie, che gestisce un centro SPRAR, la Croce Rossa e la Caritas. In questa riunione si doveva trovare una soluzione immediata per il futuro dei ragazzi, e si è proposto di trovare una somma per permettere loro di andare dove vogliono, se vogliono oppure di affittare una casa per un mese. Somma che secondo Babele si dovrebbe aggirare a non meno di cinquecento euro a persona, da dividere tra Comune e Provincia. Nessuno però vuole farsi carico dell’onere, il Comune ha dato la disponibilità per diecimila euro, ma sarebbero davvero insufficienti. La Provincia è in campagna elettorale e non esistono realtà in grado di occuparsi in maniera strutturata della questione.

I ragazzi dell’hotel, di cui più della metà ha ottenuto il permesso di soggiorno, sapranno affrontare quest’altra difficoltà, dopo deserti e torture, perdere un tetto sulla testa e il cibo ogni giorno potrebbe essere un’inezia.  Ma i martinesi, sapranno conviverci?

Il popolo dei senza libertà, secondo una ONG Usa, siamo ultimi in Europa

Ecco pubblicata la classifica di Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, e come sospettavamo l’Italia non è tra i paesi in cui i giornalisti sono liberi di scrivere quello che vorrebbero. Dire che non ce ne fossimo accorti sarebbe ipocrisia, ma che la notizia arrivi da un centro studi diciamo che un po’ fa riflettere.Ma fa riflettere il fatto di come la notizia sia stata riportata dai media, i soliti, un trafiletto sperso tra le pagine e i commenti sul divorzio di Veronica da Silvio, una lieta notizia ambientata ad Onna, e l’influenza suina che a quanto pare è stata sconfitta prima che si propagasse. Certo, direte voi, se fossimo in un paese libero, la notizia non verrebbe data perchè non è una notizia, oppure sarebbe data con squilli di tromba e con dibattiti infiniti. Invece, e questo è proprio il simbolo di quello che accade in Italia, una notizia terrificante come questa viene data con nonchalanche, tipo: “ah, a proposito, non viviamo in un paese libero…”.

Intanto, le motivazioni per cui l’Italia viene posizionata dopo il Benin e il “civilissimo e democratico” Israele, sono queste:

“The region registered one status downgrade in 2008, as Italy slipped back into the Partly Free range thanks to the increased use of courts and libel laws to limit free speech, heightened physical and extralegal intimidation by both organized crime and far-right groups, and concerns over media ownership and influence. The return of media magnate Silvio Berlusconi to the premiership reawakened fears about the concentration of state-owned and private outlets under a single leader”.

In pratica, dicono questi tipi, oltre che un po’ di leggi fatte per rendere il lavoro di cronista più burocratizzato e farraginoso, ci si mette anche Berlusconi e il suo dannatissimo et sempiterno conflitto di interessi. Non siamo un paese libero perchè prima di essere capo del governo il Nostro controllava quasi tutti i giornali e le tivvù.

E non sono usate parole miti, ma: il risveglio delle paure di una concentrazione di potere nelle mani di una sola persona…

E allora, direte, che si fa? Si fa che si inizia a guardarsi intorno alla ricerca di alternative (Officina sarà o non sarà edita da Mondadori?), oppure, e questo sarebbe già una cosa bella in sè, potremo iniziare di nuovo ad indignarci profondamente perchè c’è qualcosa che non va. Qualcosa non va nel Paese in cui la Liberazione diventa Libertà, qualcosa non va nel Paese in cui governa il Popolo della Libertà, qualcosa non va in una democrazia che divide il popolo in quelli che vogliono la Libertà e quelli che sono Democratici. Qualcosa non va se si sente il bisogno di scrivere queste parole.

Ecco il link della Freedom House dove c’è la statistica dei paesi liberi e le motivazioni.

Riccardo sta bene, estratte 2 delle 3 pallottole

L’operazione a Riccardo, colpito da tre colpi di pistola durante una serata al Cloro Rosso di Taranto da due balordi incappucciati, è andata bene, dicono i medici. L’intervento è durato dalle 7:30 di stamattina fino alle 18:00 e solo due delle tre pallottole sono state estratte. Ci vorrà un’altra operazione per togliere l’ultima pallottola. Al più presto altri aggiornamenti.