È peggio essere Rom, omosessuali o disabili?

Presentata a Reggio Emilia una ricerca svolta tra gli adolescenti pugliesi. Tutt’altro che confortanti i risultati.

Un gruppo di antropologi, pedagoghi, formatori, studiosi del linguaggio e della comunicazione, tra cui il martinese Alberto Fornasari, hanno per un anno indagato un campione di adolescenti italiani, approfondendo le paure e le aspettative di una fetta di popolazione italiana che, secondo i dati dell’Eurobarometro, è quella che più si sente esclusa dalla società. Il venti per cento, dicono i dati, che sono simili a quelli della Bulgaria. Il campione della ricerca, scelto in base ai dati della presenza di migranti e agli indici di integrazione del V Rapporto CNEL ha compreso anche le quarte classi di quattro scuole pugliesi, due licei e due istituti professionali, a Bari e a Lecce.

Lo scopo della ricerca era quello di comprendere in che maniera gli adolescenti percepiscono il diverso, sia esso migrante, disabile o omosessuale. I dati non sono troppo rassicuranti, anzi, alcune volte forniscono uno spaccato di società molto lontano dalle belle parole espresse dai leader e insegnate nelle scuole. Ad alcune domande dell’inchiesta i ragazzi hanno affermato vere e proprie sentenze che bollano “l’altro” definitivamente attraverso un procedimento che se fosse retorica sarebbe metonimia, di una parte il tutto, ma invece è realtà e si chiama stigma, razzismo. Emerge infatti una straordinaria tendenza alla generalizzazione: gli albanesi lavorano, i rumeni rubano… Una tendenza che vede l’incrociarsi delle poco efficaci pratiche interculturali nelle scuole e degli allarmi sociali scatenati dai mass media in favore di politiche e politici poco intelligenti. Nella parte curata da Fornasari emerge infatti che nelle società occidentali essere razzisti in maniera aperta è impedito da norme legislative e sociali ben radicate, ma questo significa che all’apparenza siamo tutti aperti e sensibili, mentre, appena non può sentirci nessuno, diamo sfogo ai nostri più biechi sentimenti.

Un’altra tendenza dimostrata dalla ricerca, svolta contemporaneamente in Veneto, in Emilia e in Toscana, è quella della sovra estimazione dei dati rispetto alla presenza dei migranti. Se prendiamo i dati di Bari, per esempio, in cui la popolazione straniera residente è del 1,7%, le risposte degli studenti arrivano a stimarli fino al cinquanta per cento. Non da meno Lecce, che ha una presenza dell’1,5%, dove le risposte dicono il trenta. Questo, secondo i ricercatori, è sintomo di profonda ignoranza sui temi dell’immigrazione. A ben guardare infatti, gli studenti vivono un profondo contrasto tra l’esperienza personale vissuta in classe, ad esempio, e la narrazione che di questo evento avviene al di fuori della scuola, con gli amici, in famiglia o in televisione. Tutto questo si traduce poi nella convinzione che, essere diverso (con qualsiasi accezione), sia uno svantaggio. Ci dice Fornasari:«Siamo di fronte ad un rituale che colloca “il diverso” per le sue differenze psicosomatiche, funzionali, organiche , estetiche o di preferenza sessuale in uno specifico ruolo attraverso l’attribuzione sociale dello stigma. Per gli adolescenti italiani, l’essere omosessuale costituisce il fattore di maggiore esclusione sociale dopo l’essere Rom e disabile».

Esiste però una via d’uscita:«Dai risultati emersi risulta che un ruolo educativo chiave è svolto dalle esperienze di soggiorno all’estero, di singoli e di gruppi. In particolare la necessità di testare la capacità al superamento del pregiudizio in contesti scolastici non canonici. Ma dalla nostra ricerca emerge che, se da un lato c’è la disponibilità degli adolescenti italiani agli scambi quale forma di reciproca conoscenza o di ampliamento del proprio sapere, dall’altro esiste una diffusa ritrosia verso un processo di sintesi attraverso la rinegoziazione delle proprie strutture culturali di riferimento, a seguito della permanenza con culture “altre”». In pratica gli studenti sono curiosi di conoscere ciò che è diverso da loro, ma solo per stabilire un contatto superficiale. Per porre rimedio, ci viene incontro sempre Fornasari che dice: «La scuola può fare molto per costruire percorsi di educazione interculturali efficaci e significativi. Sarebbe necessario un  percorso interculturale ben strutturato sulle dimensioni dell’empatia e dell’exotopia. Ma è importante legare il percorso interculturale ai percorsi di educazione alla cittadinanza. Purtroppo però, nonostante i principi contenuti nelle normative e nei documenti di indirizzo, dalla ricerca è emerso come la nostra scuola resti sostanzialmente portatrice di pregiudizi».

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