Conversazione su Martina Franca con Mario Desiati: il dialetto, la provincia, le convenzioni e i film porno al Bellini

Intervista esclusiva con Mario Desiati (pubblicata su Extramagazine il 12/12/2008)

Si dice che non si ha una visione pertinente delle cose se non si è ad una distanza giusta. Non bisogna essere né troppo vicini né troppo lontani. È una regola che vale per qualsiasi cosa: la giusta distanza. Se si dovesse parlare di un luogo, una città, una realtà, l’opinione di un suo abitante non è oggettiva, perché è troppo vicino, com’è troppo lontano lo sguardo di un estraneo. La giusta distanza sarebbe un suo abitante che non abita più. Mario Desiati incarna perfettamente la giusta distanza per parlare un po’ di Martina Franca, che è anche la protagonista del suo ultimo libro.

La prima cosa che si nota scorrendo le pagine de “Il paese delle spose infelici” è il massiccio uso del dialetto.

desiati Il dialetto del romanzo è un dialetto reinventato, molto più addolcito rispetto a quello della realtà, un dialetto simile a quello che parlavano i ragazzi martinesi degli anni Novanta. Ho aggiunto qualche vocale per renderlo più comprensibile a lettori e traduttori. Ma è così, spietato, duro, con un suo lato oscuro.

Cosa intendi per “lato oscuro”?

È come se questo dialetto, con le sue consonanti talmente chiuse, rifletta una parte del carattere chiuso dei martinesi.

Un carattere che è entrato nelle narrazioni popolari facendo paragonare i martinesi alla pietra con cui sono costruite le loro case. È possibile secondo te che una città possa avere un suo animo, tanto da influenzare le persone che vi abitano? Oppure, mettiamola in un modo più misterico, è possibile che ci sia una “maledizione” che grava su Martina e i martinesi?

È un’ipotesi suggestiva, ma Martina ha gli artigli come la Praga di Kafka, ti tiene stretto, se vai via ti graffia: quando vai via ti restano i segni addosso, nella testa, nel cuore e sul corpo. Sono ferite che fanno male soprattutto quando si torna, quando ci si rende conto dei cambiamenti, di cui chi ci sta dentro non ne percepisce la profondità.

E probabilmente non lo percepisce affatto. I protagonisti del libro, Veleno e Zazà (i protagonisti del romanzo, ndr ), cercano un riscatto. Un riscatto che è la felicità minuta, che consiste nel giocare in un campo d’erba, nell’odore di prato come quello del Tursi o dello Jacovone che verrà sentito una sola volta e ricordato per sempre.

Sembrerebbe poco…

Loro non sono ancora corrotti dal mondo circostante che gli obbliga a cercare altri tipi di felicità. Veleno e Zazà sognano nel calcio uno sfogo nel male di provincia, dove la vita sembra obbligarti a un certo percorso e simbolicamente uno di questi traguardi è il matrimonio. Percepire la diversità dal contesto senza che questa sia tollerata è allora un momento di squilibrio e infelicità. Il sudore e la rabbia che si mettono in campo prima e nel tifo dopo, è l’apparente via d’uscita del duo.

Una provincia che ti obbliga a seguire un determinato percorso: o accetti le convenzioni o quella è la porta.

C’è provincia e provincia: c’è anche una provincia a Roma e Milano che sono le uniche metropoli italiane, un luogo dove ci si conosce tutti e si seguono le stesse convenzioni d’un paese.

Se scendiamo invece nel caso che ci riguarda, è vero le convenzioni esistono, ma tutto sta a esserne coscienti e proprio il villaggio globale a volte bombarda con il consumismo che corrompe i valori sani della provincia, ossia lentezza, sguardo, solidarietà.

Nel libro traspare una sorta di “horror vacui”, che è un elemento comune ad alcuni scrittori meridionali, tipo Bodini. Una paura del vuoto che distorce la percezione, quasi. A cosa è dovuta secondo te?

Credo che nella periferia, nella provincia, si avverta di più questo horror vacui che forse è semplicemente un dare senso e corpo alla solitudine. Non è un orrore esistenziale la solitudine della provincia secondo me, ma una condizione, la soluzione è autenticità, vivere essendo se stessi, senza rinunce alla propria personalità.

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Passiamo ad un argomento più leggero. Parliamo del Bellini: un luogo storico della città, come anche tu sostieni nel tuo libro, che è stato abbattuto per fare appartamenti. Le voci di dissenso sono state

pochissime e nulli i risultati.

Il cinema Bellini, pur non essendo un vero monumento, è stato un feticcio della mia generazione. Il cinema proibito, metafora di una zona rossa, luogo impenetrabile. Gli anni delle locandine oscene con la gente che aspettava davanti al Bar Ducale il momento dell’arrivo del nuovo film, restano uno dei momenti più comici della presunta Martina bene degli anni Ottanta. Tutti si ritrovavano davanti al Bellini per sbaglio come quando tutti guardavano il film osè su AT6 per sbaglio, salvo poi essere dettagliati nella descrizione delle scene. Insomma essere bambini a Martina è stato molto bello e divertente anche per quel fantastico “equivoco” che era un cinema porno nel centro pulsante della città.

LA LEGGE CHE METTE LO STUDENTE AL CENTRO. E LASCIA GLI ALTRI A CASA

Con 162 voti favorevoli e 134 contrari, il famigerato decreto Gelmini-Tremonti ha acquisito dignità di legge. Questo nonostante in tutta Italia le piazze fossero piene di studenti, di professori e di genitori che manifestavano il loro parere contrario. La legge Gelmini, come abbiamo avuto più occasione di ripetere, più che rispondere a bisogni educativi e didattici, risolve problemi legati ai conti pubblici e alla crisi mondiale dell’economia liberista.

La protesta contro i taglia alla scuola è diffusa in tutta l’Italia, in ogni città e paese, sono sorti dal nulla comitati per la tutela della pubblica istruzione. A Martina è nato il comitato “Salviamo la scuola di tutti” di cui fanno parte tutti i cittadini e le associazioni che hanno a che fare con la scuola. Domenica 26 ottobre hanno organizzato una bellissima manifestazione in piazza XX Settembre per raccogliere firme contro l’approvazione del decreto. Fino ad adesso ne hanno raccolte più di cinquecento e non si fermeranno, nonostante il decreto sia già stato approvato. Le preoccupazioni che muovono queste persone a scendere in piazza sono così profonde che anche la certezza di combattere contro una legge firmata del governo non le spaventa. Anzi. Un’attivista del comitato, membro anche di associazione che riunisce le famiglie di persone affette da handicap, vede nel futuro sempre più difficoltà:”Se tagliano gli insegnanti di sostegno, per i nostri figli sarà impossibile frequentare. Già adesso non è facile. Se consideriamo poi che hanno deciso di fare delle classi solo per bambini immigrati, cosa può impedirci di pensare che non sarà così anche per le persone che sono affette da handicap?” La linea dell’attuale governo sembra chiara da questo punto di vista: supportare solo le attività che promuovono la normalità, ossia i valori convenzionali, cioè fede (cattolica) identità (italiana) classe (ricca).

Per il corteo di giovedì sono partiti da Taranto più di quindici pullman pieni. Undici solo della CGIL ci dice Anna Santoro, responsabile per la provincia jonica del comparto scuola del sindacato di Epifani, sessanta in tutta la Puglia: “La riforma tanto proclamata non esiste. E soprattutto le cifre che snocciola Berlusconi ogni volta non sono che una finzione. Dipende sempre dalle interpretazioni. È vero per esempio che non ci saranno licenziamenti, ma questo non significa creare posti di lavoro, significa che dall’anno prossimo i precari, sia docenti che personale non docente, saranno sostituiti da chi ha il contratto a tempo indeterminato che risulterà in esubero rispetto all’introduzione del maestro prevalente. A Taranto per esempio, quest’anno sono stati assunti duemila e duecento persone precarie, che l’anno prossimo saranno a spasso. Poi parlano della media europea, dove c’è un insegnante per tredici studenti contro i nove italiani. Non è scritto da nessuna parte che l’adeguamento è verso il basso. Quindi si è innalzato il limite massimo degli alunni per classe che va fino a ventisei, con una tolleranza del dieci per cento, quindi si arriva a trenta. Lo sciopero di giovedì è solo il punto di partenza.”

Abbiamo provato a calare la riforma a Martina e abbiamo notato che, in base alla norma che impedisce l’esistenza di scuole con meno ottanta alunni e l’accorpamento di quelle con meno di cinquecento, scomparirebbe immediatamente il liceo artistico, e le classi martinesi sarebbero tutte dirottate su Taranto. Poi non ci sarebbero più le scuole di campagna perché hanno una media di alunni, secondo i dati dell’anno passato, di trenta studenti. Alla fine scompariranno i professionali, come l’Istituto Motolese, e andranno a confluire negli istituti tecnici. Poi ci sono le scuole di infanzia, che a Martina sono 12, solo quelle statali, che dovrebbero essere raggruppate in due grandi asili da cinquecento bambini l’uno.

Però adesso tutti avranno il grembiulino…

“La Legge Carfagna è un tradimento”

Nonostante si dica che è il mestiere più antico del mondo, le discussioni sulla prostituzione sono sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando quest’argomento viene alimentato dalle polemiche prodotte dall’incapacità politica di affrontare il problema. Nel frattempo che ministri preti e soubrette si affrontano nell’arena televisiva, migliaia di ragazze sono per strada o chiuse in appartamenti oppure in viaggio verso l’Italia con la falsa speranza di intrecciare capelli o fare le badanti. Se da una parte si deve arginare il fenomeno intervenendo in maniera repressiva, dall’altro è necessario incrementare l’azione di protezione sociale che può permettere a queste persone, spesso vittime inconsapevoli di traffici assai lucrosi, una via d’uscita, condividendo le buone pratiche che il privato sociale ha sperimentato negli anni. Di questo si è parlato a “O-Scena: Le trame indicibili e invisibili della violenza sulle donne” in un convegno tenutosi giovedì 16 a Trani, organizzato dalla cooperativa sociale “Comunità Oasi2 San Francesco”. La giornata, che rientrava nelle attività previste dal progetto Interreg Italia-Albania chiamato “Shtepi” (casa), che prevedeva la collaborazione delle realtà pugliesi e albanesi che lavorano con chi è vittima di tratta e sfruttamento sessuale, ha visto il succedersi di molti interlocutori, che hanno condiviso con la platea le proprie esperienze riguardo l’argomento. Era impossibile, dato il tema, non commentare la famigerata legge Carfagna. Lo hanno fatto in maniera originale, da un punto di vista scientifico, dato che si tratta di addetti ai lavori, il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, Giuseppe Scelsi e la professoressa Patrizia Resta, antropologa dell’Università di Foggia. Nelle parole del sostituto procuratore, la legge Carfagna viene descritta pressappoco come un “tradimento”, da due prospettive diverse. La prima riguarda tutta la giurisprudenza internazionale, ossia la direzione che i legislatori hanno dato per la risoluzione del problema. Se sia nella storia del diritto locale ed europeo, si è cercato di concertare l’azione repressiva con quella inclusiva e di protezione, il disegno di legge della Ministra rende vani tutti gli sforzi fatti finora. Cacciando le prostitute dalla strada si nasconde il reato, il suo corpo, e questo rende più difficile l’intervento delle forze dell’ordine e degli operatori sociali. Il secondo “tradimento” è più intimo, e riguarda il contesto sociale ed emozionale da cui questa legge scaturisce: la paura. A tradire in questo caso è quello che non viene espresso ma che rimane implicito: la paura di questo fenomeno. E per paura si nasconde, si allontana dalla vista, dalla percezione. Il problema non solo non viene risolto ma viene allontanato dai sensi, applicando la terribile legge della propaganda: quello che non c’è non si vede. 

Alle parole di Scelsi fanno eco quelle della professoressa Resta che del fenomeno invece si occupa da un punto di vista scientifico. Al centro del suo discorso c’è il ruolo della cultura, intesa come produzione e diffusione delle conoscenze, e dell’importanza di essa nei cambiamenti sociali. Porta l’esempio della prostituzione albanese degli anni novanta, quando sulle strade pugliesi c’erano decine di ragazze provenienti dall’altra parte del Canale d’Otranto. Il meccanismo di reclutamento delle giovani donne era semplice: venivano fatte sposare con alcuni uomini con la promessa di un futuro migliore in Italia ma, sbarcate in Puglia venivano mandate per strada. Un tipo di organizzazione necessario perché le rigide leggi del Kanun, della tradizione orale albanese, impediva alle ragazze di lasciare la propria casa se non sposate. Solo attraverso l’attento studio del fenomeno e la sua divulgazione attraverso i mezzi di comunicazione anche albanesi ha permesso di arginarlo, intervenendo direttamente a monte del problema: le famiglie. Venendo a conoscenza del meccanismo perverso, i padri hanno impedito che questo si ripetesse oltre. Questa stessa pratica potrebbe essere usata per la versione moderna del meretricio, che vede per strada invece ragazze prevalentemente africane, nigeriane, andare alla radice e capire per intervenire direttamente a Benin City. Ma questo diventa difficile se, invocando un senso del pudore fittizio, funzionale alla propaganda politica, il fenomeno viene occultato, come la polvere sotto il tappeto. Oscene non sarebbero più le violenze ma le donne stesse.

Un movimento di opinione di operatori sociali e di addetti ai lavori si sta muovendo per impedire che la legge Carfagna renda nullo il lavoro di anni, fatto all’insegna della protezione e dell’inclusione delle ragazze vendute e comprate, vittime di un traffico malvagio. Antonella De Benedictis, responsabile dell’Area Immigrazione dell’Oasi2 non lesina parole dure nei confronti dei possibili scenari futuri che, sulla base del detto “occhio non vede, cuore non duole”, impediranno fattivamente alle organizzazioni sociali di intercettare le vittime del traffico di esseri umani, lasciandole per sempre in balia dei loro sfruttatori.

Crisi finanziaria: i danni reali che non ci dicono

Il presidente iraniano Ahmadinejad ha annunciato ieri che con questa crisi si sancisce la fine del capitalismo, che è un sistema corrotto che non segue i principi del Corano. Parole che fanno eco a quelle di Ratzinger che definivano i soldi come poco importanti rispetto alla Parola di Dio.

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Se il capitalismo è fallito o no non si può ancora dire, anche se l’economia più florida adesso è quella cinese che si basa sulle dottrine socialiste. Quello che si può affermare è che la corsa alla privatizzazione ha incontrato un ostacolo insormontabile e che si dovrebbe riflettere un po’ sulle conseguenze del libero mercato.

Andiamo con ordine.

Tutto inizia, secondo le cronache, quando alcune banche americane iniziano a concedere prestiti a chiunque per acquistare case. Sembrava un affare promettente: invece di pagare un affitto, l’inquilino poteva pagare un mutuo. Le garanzie richieste erano in pratica zero, soprattutto in confronto alle regole bancarie nostrane che fanno in modo che i prestiti vadano a chi i soldi già ce l’ha. I mutui concessi dalle banche americane erano tantissimi: chiunque, anche senza un lavoro fisso, poteva permettersi una casa. A causa dell’inflazione e dell’aumento del costo della vita, molti di coloro che erano in debito nei confronti delle banche non hanno più potuto pagare le rate del mutuo, e sono stati costretti a lasciare la propria casa. Le banche ora si trovavano nella condizione di possedere migliaia di case e appartamenti sfitti il cui prezzo era svalutato e che nessuno poteva comunque permettersi di acquistare. A questo si è aggiunto l’intervento delle diverse banche di affari che, convinte che l’affare fosse lucroso, avevano acquistato le cartelle dei crediti dalle banche che avevano concesso i mutui, sperando di poterci guadagnare qualcosa. La bolla dei subprime, quando è scoppiata, ha portato con se tutto il sistema bancario americano, e conseguentemente tutta l’economia del paese. In Italia ci dicono che questo non può accadere, che il nostro sistema è diverso. Infatti ci sono regole molto più severe nei confronti della finanza. Il fatto è che le banche di affari americane (le banche delle banche) avevano investito anche nel nostro paese, comprando azioni dell’Unicredit ad esempio, ma i dati certi non ce ne sono, perchè il nostro governo li tiene gelosamente nascosti.

Quello che nessuno dice però, è che il sistema americano è tutto privatizzato, dalla scuola alla sanità alla previdenza sociale. Lo tsunami che ora si è scatenato ha devastato ogni aspetto della vita degli statunitensi, perché tutto passava dalle banche e dalle assicurazioni. Tantissimi americani hanno perso la pensione, definitivamente, perché l’avevano investita in fondi che poi sono falliti. In Italia questa operazione era stata messa in piedi due anni fa, con la storia del TFR, e molti lavoratori si sono lasciati convincere dal miraggio di poter guadagnare dieci euro in più al mese, affidando la propria liquidazione o la propria pensione agli interessi delle banche. Il sistema liberista, quello che trasforma in merce da vendere o acquistare qualsiasi cosa, ha contagiato anche le istituzioni di protezione sociale che il nostro paese aveva da decenni. Conseguentemente, in base ai fatti che stanno succedendo, non possiamo più essere certi che alla fine del nostro lavoro ci aspetterà la liquidazione o la pensione.

Vite invisibili

I ragazzi si stanno preparando alla stagione estiva. Appena arriveranno i mesi di luglio e di agosto, centinaia di stranieri si riverseranno nelle campagne pugliesi e non è il caso di farsi trovare impreparati. Si puliscono le case, si riempiono le cisterne e si affumicano galline e pesci da offrire come rinfresco dopo una giornata passata a godersi i benefici del sole del Tavoliere. La Puglia da anni ormai è una meta privilegiata nei mesi caldi, e sia grazie ad iniziative pubbliche ma soprattutto grazie a quelle private, si sono trovate le sistemazioni adatte per accogliere chi arriva nella provincia di Foggia. Africani sub sahariani per la maggior parte, che non vengono certo a farsi la vacanza ma a lavorare. Da due anni a questa parte si conosce più o meno bene quello che accade nel Tavoliere d’estate: distese immense coltivate a pomodoro, caporali e schiavi che rischiano la vita per meno di trenta euro al giorno, e una condizione di vita che supera ogni immaginazione.

Prima dell’articolo di Gatti sull’Espresso c’è stata l’inchiesta di Medici Senza Frontiere, che per alcuni mesi ha monitorato quello che accade nel cosiddetto “circuito degli stagionali”: decine e decine di migranti che ruotano tra le regioni meridionali a seconda del periodo: il pomodoro a luglio in Puglia e in Campania, le olive a ottobre, sempre in Puglia, gli agrumi in Calabria e così via. Quindi c’è stata l’indignazione pubblica, lo sgomento e l’affrettarsi a trovare una soluzione. In breve, nell’estate del 2006, la giunta Vendola pubblica una legge che dovrebbe essere il primo passo nella lotta contro il lavoro nero e quindi verso il debellamento di un fenomeno emergenziale che macchia vistosamente la coscienza dei cittadini italiani. Il problema è che non è un’emergenza vera e propria, dato che il fenomeno si sviluppa in maniera quasi costante per tutto l’anno e soprattutto non si tratta ormai più di lavoro nero. È altro. È qualcosa che va oltre le nostre leggi e che la nostra Costituzione quasi non prevede più. E non è nemmeno razzismo, o intolleranza. Potrebbe chiamarsi schiavitù, tratta, sfruttamento. Ma queste parole non servono a descrivere quello che si vede facendo una passeggiata nelle campagne di Cerignola o di Foggia, tra Rignano e San Marco in Lamis, all’ombra del Gargano e del santuario di Padre Pio. Basta abbandonare per un po’ la statale 16 per incontrare casali che sembrano abbandonati ma che hanno panni stesi ad asciugare e vecchie berline parcheggiate fuori. Basterebbe seguire qualche trattore per entrare in un mondo che pensavamo non esistesse più. Per motivi di discrezione, data la delicatezza dell’argomento, ci asterremo dal fornire indicazioni geografiche precise, basti comunque sapere che nelle campagne in provincia di Foggia esistono veri e propri villaggi abitati da comunità di migranti stabili, che lavorano come braccianti a giornata nei latifondi del Tavoliere. Sono case uguali une alle altre, la maggior parte delle quali costruite dopo la Prima Guerra Mondiale con il fondo dell’Opera Nazionale Combattenti, quando si bonificavano quelle zone per renderle coltivabili. Sono case a due piani, alcune, dalle parti di Arpinova, oppure ad un piano, con un’ampia veranda che inizialmente serviva per mettere al riparo dalla pioggia il raccolto. Sembrano villette a schiera, ma sono invece fatiscenti costruzioni di mattoni rossi piene di crepe e quasi tutti i casi senza luce e senz’acqua. Ci accompagna in questo viaggio l’Unità di Strada dell’Oasi2 di Trani, una cooperativa sociale che lavora per conto della Regione ad un progetto di protezione sociale per chi è stato ridotto in schiavitù o è vittima di tratta, non necessariamente straniero, l’ex Art13 della legge 228 del 2003. Gli operatori dell’Oasi2 conoscono bene il dedalo di strade comunali provinciali e statali che aggrovigliano la pianura foggiana, ci lavorano da due anni quasi, e hanno preso contatto con quasi un migliaio di persone. Ognuno ha una storia a sé, anche se in molti casi si somigliano: vengono dall’Africa sub sahariana, molti passano dalla Libia e si imbarcano per l’Italia. Poi arrivano in Sicilia, oppure vengono intercettati dalle navi della marina e fatti sbarcare a Lampedusa. In entrambi i casi poi arrivano in Puglia, o con un foglio di via o perché mandati al CPT di Borgo Mezzanone. Poi, attraverso una rete di conoscenze e di relazioni, si inseriscono nel circuito degli stagionali. Ogni giorno in campagna arrivano persone nuove, e non necessariamente nei periodi di intenso lavoro. Gli operatori dell’Oasi2 lavorano in questa realtà tutto l’anno e sanno benissimo che non si tratta di un’emergenza legata a un mese, ma ad una situazione continuata. La condizione di irregolare obbliga a cercare lavoro solo in nero, e questo porta quasi necessariamente ad uno sfruttamento. I migranti nelle campagne sono funzionali al sistema economico foggiano, che si basa prevalentemente sull’agricoltura. Come ci spiega Antonella De Benedittis, responsabile dell’Area Migrazione dell’Oasi2, se non ci fossero centinaia di persone disposte a lavorare senza contratto e per pochi euro all’ora, il sistema crollerebbe. Come potrebbe crollare anche nel momento in cui dovesse passare il decreto sulla sicurezza che tramuta la condizione di clandestinità in reato. Infatti alla cooperativa si chiedono cosa accadrà nel momento in cui il Parlamento dovesse approvarlo. I loro operatori infatti non avrebbero più a che fare con persone senza permesso di soggiorno, ma con criminali e il loro lavoro potrebbe essere scambiato facilmente come un reato di favoreggiamento. Nel frattempo però l’Unità di strada continua a battere il territorio, incontrando gente e mappando le zone nello stesso momento. Il loro approccio non è di tipo salvifico (cristologico direbbe qualcuno di loro) ma mutua dal campo delle tossicodipendenze la filosofia della “riduzione del danno”. Così come non ci si deve occupare di un tossicodipendente solo quando ha scelto di non farsi più, così non si può proporre ad un diciottenne del Mali che ha appena attraversato l’Africa fino ad arrivare a vivere in un tugurio all’ombra del Gargano, di denunciare il suo sfruttatore e solo in questo caso di accedere al percorso di protezione sociale che la legge prevede. Gli operatori dell’Oasi2 quindi forniscono principalmente informazioni sanitarie e legali, non portano da mangiare, non regalano coperte, non danno biscotti. Spiegano in che modo è possibile avere assistenza sanitaria, perché la maggior parte non sa che la legge dà anche a chi è senza carta la possibilità di accedere al sistema sanitario nazionale. Non solo, ma quando il caso lo rende necessario, sono gli operatori stessi che accompagnano presso gli ospedali. Dal punto di vista legale invece, danno consigli per il modo di affrontare i padroni che non pagano o come poter denunciare il proprio sfruttatore senza essere rimpatriati. Infatti, accade spesso che quando qualcuno dei migranti si fa forza e decide di porre fine alla propria condizione di sfruttamento andando in questura per denunciare, la polizia, un po’ per ignoranza, un po’ per la pigrizia nell’attivare il percorso di protezione sociale, avvia la procedura per il rimpatrio dell’immigrato clandestino. La legge prevede, con l’ex art. 13 e soprattutto con l’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione, delle modalità di tutela di chi è vittima di sfruttamento o peggio di tratta, arrivando anche a concedere un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Uno dei problemi che l’Oasi2 si trova ad affrontare, continua Antonella, è quello della percezione del diritto e quindi anche di sfruttamento. Se noi cittadini siamo portati a sdegnarci di fronte a chi paga quattro euro a cassa i pomodori raccolti sotto il sole di luglio, e lo indichiamo come sfruttatore e come aguzzino, i ragazzi che vengono dal Mali, dal Senegal, dal Sudan invece riconoscono in lui una sorta di gratitudine, quasi, perché ha dato loro un lavoro. E un lavoro significa la possibilità un giorno di avere un permesso di soggiorno, e quindi vivere senza più la paura di essere scoperti, arrestati, rimpatriati. Non avere un permesso di soggiorno significa essere in ogni momento ricattabili da un sistema che da un lato criminalizza i clandestini e dall’altro ne ha bisogno per sopravvivere e per questo vara leggi apposta per crearli. La legge Bossi-Fini, oltre ad essere una manna per gli imprenditori del NordEst e per i padroni dei campi meridionali, perché fornisce loro manodopera a costi quasi cinesi, è una legge estremamente razzista perché considera l’immigrato solo in funzione della sua forza lavoro. Se il fenomeno dell’immigrazione è vissuto come un problema e i clandestini vengono visti come criminali, il risultato sarà sempre quello di avvantaggiare meccanismi di sfruttamento nei confronti di questi ultimi. Dalla casa, che non si può affittare senza un permesso di soggiorno, al contratto di lavoro, che non si può stipulare se non si ha una casa. Questo alimenta un mercato rigoglioso che sfrutta la condizione di clandestinità che rende ricattabili le persone.

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Lo Scudo dell’Unità di strada si ferma alla prima casa. Gambia ha appena finito di affumicare insieme pesce e pezzi di galline, che poi venderà quando arriverà la stagione dei pomodori. Al tavolo, sotto la veranda è seduto Papas, un polacco che assomiglia incredibilmente a Wojtyla. Non è andato a lavoro oggi, il padrone non aveva bisogno di lui, quindi è andato a trovare un amico. Fuori dalla casa, sulla strada, Medici Senza Frontiere ha posizionato alcune cisterne da duemila litri ciascuna che il comune di Cerignola si è impegnato a riempire di acqua potabile due volte a settimana. Infatti, appena dopo il nostro arrivo, si ferma l’autobotte con l’acqua. Uno dei due operai, Peppe, ci tiene a dirci che non solo provvede a mettere l’acqua nelle cisterne, ma si preoccupa pure di riempire i bidoni che hanno gli abitanti della zona. Ma nelle case non manca solo l’acqua: non c’è corrente, non c’è fognatura. Ci spostiamo poco più avanti, in un’altra abitazione dove sono da poco tornati dalla campagna. Qui ci abitano una decina di senegalesi. Molti di loro non hanno il permesso di soggiorno e Saber e Valentina spiegano che possono comunque accedere ai servizi sanitari tramite l’STP (Straniero Temporaneamente Presente: un codice fornito dalle Asl per accedere al SSN) . Distribuiscono i volantini con il recapito dell’Unità di strada e la mappa di Foggia, dove sono segnati i luoghi dove trovare da mangiare, da vestire e da dormire, dove ci sono gli ambulatori e la sede della Caritas. Lo Scudo passa avanti, le case sono molte ed è difficile riuscire a coprire una zona in un solo pomeriggio. In alcune abitazioni abitano in dieci, in altre di meno. Dipende, crediamo di capire, dal ruolo che ha chi vi abita. Un caporale, cioè un intermediario tra il padrone e i lavoranti, vive con meno gente, la sua casa ha più comodità. Egli provvede ad accompagnare i ragazzi in campagna e a comprare da mangiare e da bere da rivendere a chi torna dalla campagna. Possiede di solito una macchina, e ha un contratto di lavoro che gli permette di avere un permesso di soggiorno. Nella scala gerarchica delle campagne è a metà tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Trova manodopera e in cambio ha un contratto. Gestisce il prezzo delle casse di pomodoro o della paga oraria. Il caporale può permettersi comodità che gli altri non possono: oltre a dividere il tetto con meno gente, può permettersi un gruppo elettrogeno per l’elettricità, e quindi avere una televisione o una radio, o entrambe. Egli può essere considerato sfruttatore solo nella misura in cui guadagni dei soldi con il lavoro degli altri. Ma condivide con gli altri una condizione di disagio estrema. Vive come gli altri in vecchie case fatiscenti, pronte a crollare, senza nessun tipo di servizio, senza riscaldamento per i periodi freddi. Abita anch’egli in quelle città invisibili che sono sparse nelle campagne del foggiano, comunità stabili di ultimi che sono funzionali ad un sistema che non li accetta ma li sfrutta.

L’Unità di strada ha effettuato più di un migliaio di contatti nel 2007 (compresa la stagione di raccolta dei pomodori) e circa duecento nei primi mesi del 2008. Molte delle persone arrivano solo per la stagione estiva e poi ripartono. Tra chi rimane, col tempo, sono nate delle coppie, alcune anche miste. Alcuni dei ragazzi africani convivono con ragazze dell’Europa dell’est da cui hanno avuto dei figli. Nelle città invisibili gli abitanti cambiano, ruotano come i flussi di migranti che arrivano in Italia. Prima degli africani c’erano i bulgari, i rumeni e i polacchi, e prima ancora c’erano degli albanesi. Ce lo dicono le scritte lasciate sui muri: in una casa dalle parti di Arpinova campeggia a lettere maiuscole la sigla VFLP (Vdekje Fashizmit Liri Popullit, una sorta di motto dell’Albania socialista che recita: Morte al Fascismo e Libertà al Popolo).

Al tramonto lo Scudo torna verso Trani, lasciando le città invisibili alla loro notte. Esse non scompaiono nel buio, esistono sempre, anche se non vogliamo vederle.

Piano Strategico “Valle d’Itria”: Area Vasta(sa)

Cos’è l’Area Vasta

Il 2013 verrà chiuso il rubinetto che irrorava di milioni di euro la Puglia e altre zone dell’Italia meridionale, perché, secondo i piani di Bruxelles, i nostri territori non saranno più quelli più bisognosi di aiuto, lasciando il posto dei piccoli ai neocomunitari.

In vista si questa scadenza, la giunta pugliese ha ritenuto opportuno sfruttare al massimo l’ultima occasione realizzando interventi che possano durare il più a lungo, che non si fermino al solo quinquennio ma che gettino le basi per un giusto sviluppo della regione. Per centrare completamente l’obiettivo si è deciso di far partire le scelte dal basso, cioè dai comuni che, insieme alle parti sociali, alle associazioni di categoria, a quelle culturale, alle cooperative, ai singoli cittadini, si fossero messi intorno ad un tavolo con carta e matita per disegnare il territorio che volevano. Una sorta di lettera a Babbo Natale.

L’importante è partecipare

Martina Franca ha deciso all’ultimo momento di partecipare all’area vasta denominata “Valle d’Itria”, di cui fanno parte altri sette comuni: Monopoli, Noci, Alberobello, Castellana Grotte, Putignano, Locorotondo, Cisternino, accantonando l’idea di partecipare all’area tarantina. Avendo deciso in extremis la partecipazione alla programmazione, Martina ha perso il ruolo di capofila, ruolo che le sarebbe spettato per continuità storica, dato che lo era per il PIT5, di cui l’Area Vasta è la continuazione, per motivi politici, essendo il comune più popoloso tra tutti e affacciandosi direttamente nella valle che dà il nome all’area. Invece il capofila è Monopoli, e infatti alla prima occhiata, le linee di intervento insistono specificatamente sulla zona del mare, che come ben sappiamo, con la Valle d’Itria ha poco a che spartire. Nonostante tutto però, come ogni cittadino martinese sa, è già molto che l’amministrazione si sia accorta di un’occasione simile.

Poca partecipazione: “la mezz’ora di Martina”

Il giorno della presentazione del progetto a Martina, lunedì scorso, era tutto un rincorrersi di autocelebrazioni e di autocomplimenti, sulla bravura di chi ha fatto e sulla democraticità partecipativa delle scelte. L’architetto Sgobba, progettista capo, era proprio contento del lavoro, preoccupato solo che la Regione non si comportasse male, non approvando i vari progetti. Detto in altri termini, sperava caldamente che tutto il lavoro per cui ha avuto un compenso di circa mezzo milione di euro, non si risolvesse in una bolla di sapone nel momento in cui persone più accorte e meno coinvolte avessero messo gli occhi sopra. Andiamo però con ordine.

Un criterio fondamentale per l’approvazione dei progetti da parte della Regione è la partecipazione, ossia il livello di democraticità con cui sono state prese le decisioni. Dato che si tratta di interventi a lunghissimo termine non si può permettere che la scelta sia fatta solo dall’amministratore (che ora è di un colore e domani sarà di un altro), ma deve essere coinvolta tutta la cittadinanza. Cosa che non è per niente avvenuta da parte della cabina di regia di questo piano strategico, nonostante il project manager Porcelli affermi il contrario. Un esempio su tutti: la pubblicizzazione della presentazione del progetto è stata fatta tramite una fotocopia di un foglio A4 affisso sul portone del Palazzo Ducale. Roba da Martin Lutero. Durante tutta la programmazione le realtà che avevano inviato la propria adesione venivano sì puntualmente invitate alle riunioni, ma queste erano discussioni di un paio d’ore riguardo temi generali. Di questi incontri se ne sono fatti dodici, almeno uno in ogni comune dell’area. Solo dodici incontri (pubblici) per decidere quale sarà il nostro futuro. A Taranto per fare un paragone, tutta l’estate si sono tenuti forum tematici in cui le associazioni, le imprese, i singoli cittadini hanno espresso attivamente la propria opinione. Inoltre la trasparenza è da ricercarsi anche nel modo in cui vengono affidati gli incarichi. A quanto pare non esiste traccia di nessun bando pubblico per l’assegnazione di nessun ruolo. Tutti nominati per conoscenza?

Partecipazione zero, a conti fatti, confutando ampiamente Porcelli che interpretava le polemiche a riguardo come l’ennesima “mezz’ora di Martina”.

I paradossi del progetto

Se si entra nel merito della questione del Piano strategico poi, non possiamo non accorgerci di un elenco molto lungo di paradossi e incongruenze. L’architetto Sgobba, durante la presentazione di lunedì, ha detto di essere rimasto colpito di quanto il turismo estivo si concentri di più a Cisternino che non a Martina e di come gli stranieri stiano acquistando molte costruzioni nelle nostre campagne. Pare se ne sia accorto quest’anno, quando non ci vuole una laurea in sociologia per essersi resi conto del fatto che Martina è in un novembre continuo a differenza della vitalità dei paesi accanto. Per quanto riguarda la presenza di stranieri, bisognerebbe avvisare l’onnipresente architetto che la nostra zona è ormai definita “trullishire” tanto è massiccia la presenza di nordeuropei.

Il dubbio a questo punto è che il progetto per il piano strategico sia vecchio di anni, altrimenti non si spiegherebbe tra l’altro, come mai si voglia recuperare il consorzio Artemoda, che non solo dovrebbe essere dimenticato ma, dato che nulla è stato fatto con i soldi pubblici che sono stati spesi, qualcuno con la fiamma oro sul berretto dovrebbe pure indagare.

Nessuna idea nuova, anzi. Negli obiettivi ci si prefigge di incrementare la raccolta differenziata attraverso progetti pilota. Cosa da 1980, dato che la UE ha fissato per il 2010 un netto incremento della differenziazione e da queste parti devono ancora capire come fare a dividere la plastica dal vetro. Inoltre Martina per quanto riguarda i rifiuti fa parte dell’ATO1, l’ambito territoriale che fa capo a Massafra e Taranto. E verso Taranto guarda anche per i servizi sociali, dato che condivide il Piano di Zona con Crispiano, nonostante il sociale sia una delle azioni previste dal Piano strategico. Ci si prefigge di esportare il progetto chiamato Green@t, che è un residuo della programmazione del PIT5, in cui per risolvere l’esclusione ci si rivolge alle agenzie interinali. Quello del progetto Green@t dovrebbe essere un capitolo a parte, dato che nulla è ancora partito, nonostante il Comune di Martina abbia già provveduto a stanziare i fondi (più di seicentomila euro) per l’ATI formato da un’agenzia interinale bolognese (Workopp) e due società pugliesi di servizi (Forpuglia e Informa S.C.A.R.L.)vincitrice di una gara d’appalto al ribasso di cui nessuno ha memoria.

Poi c’è la creazione di un polo museale che avrà come area di riferimento la Valle d’Itria ma che sarà a venti kilometri di distanza, dato che si farebbe nel Parco delle Pianelle.

Un’ultima cosa degna di nota è la diffusione di telecamere nel centro storico, i cui terminali necessiteranno di una continua sorveglianza da parte qualche impresa privata, dato il numero esiguo dei nostri vigili urbani.

Tutto il resto del progetto si riferisce alla costruzione di infrastrutture, strade ponti palazzi. Si vuole incrementare lo sviluppo sostenibile allargando le strade per velocizzarne lo scorrimento, restaurare con soldi pubblici immobili di proprietà della Chiesa (quindi privati), rafforzare le ferrovie del Sud-Est posando il doppio binario, ma solo fino ai paesi che dell’area vasta “Valle d’Itria” fanno parte.

Una Puglia da cartolina

La Puglia che hanno in mente questi amministratori, i dirigenti comunali e i portatori di grandi interessi, è un territorio da cartolina, devoto al turismo, che confonde la produzione culturale solo con la scenografia del Festival della Valle d’Itria, che rafforza quelle che un tempo erano le produzioni industriali più importanti e ora non più. Si punta sul tessile, un settore da anni in crisi a causa delle massicce importazioni dai paesi emergenti, si punta sul prodotto tipico ma solo sulla commercializzazione e non sulla sua produzione. Un territorio che dovrebbe competere con il Montenegro per il turismo, ma che evidentemente non può, data la diversità dell’offerta. E non si può nemmeno più puntare sulla risorsa del turismo data la grave crisi finanziaria che stiamo attraversando. Chi avrà fra un paio d’anni i soldi per potersi permettere di andare a mare per poi andare a dormire nei trulli dell’entroterra?

Questo è l’idea del territorio che emerge dal lavoro fintamente partecipativo che ha visto intorno allo stesso tavolo i volti soliti della gestione di queste zone. Le stesse parole vuote di sempre che giustificheranno in qualche modo l’uso dei fondi europei che, con i soliti giochi di prestigio, finiranno in qualche grotta delle nostre masserie.

Presidiare contro la terribile propaganda

L’ILVA e i suoi problemi stanno acquistando ultimamente un risalto nazionale. Nella narrazione di vari servizi giornalistici sta assumendo sempre più l’aspetto di un mostro, dipinto con gli stessi colori con cui da anni ormai le varie associazioni ambientaliste e di sensibilizzazione tarantine ne disegnano i tratti. L’ILVA è una fabbrica di morte, epicentro di diffusione di tumori e di inquinamento. Gli operai sono spesso vittime di incidenti mortali. La sua direzione viene raccontata come spietata, spesso indagata e quindi condannata dai tribunali. Dovrebbe far piacere un atteggiamento del genere da parte dei media nazionali e locali ma, un’ombra sinistra appare come sfondo di questa riflessione: un paragone inquietante.

Prima dell’attacco alle Torri Gemelle e la conseguente accusa contro il regime talebano afgano, l’opinione pubblica mondiale era stata sensibilizzata da una massiccia campagna di informazione capitanata da Amnesty International. Chi non ricorda l’immagine della donna di Kabul col burqa o la distruzione dei Budda da parte dell’esercito? Conoscevamo l’Afghanistan attraverso foto e video che mostravano la violenza di un regime guidato dal fondamentalismo religioso e tutti, ma proprio tutti, ne eravamo indignati. La decisione USA di attaccare l’Afghanistan per estirpare alla radice il problema talebano un po’ ci spaventava ma un po’ lo condividevamo, dato che, oltre il fatto del World Trade Center, sapevamo di cosa erano capaci questi “studenti di Dio”. Da questo si desume che le campagne delle varie ONG siano state propedeutiche alle bombe americane.

Se per “sinistra” intendiamo una parte della popolazione sensibili ai temi dei diritti civili e delle libertà fondamentali, pacifista e tendenzialmente eterocentrata, e per “destra” invece la parte che è più conservatrice, attaccata ad un sistema valoriale assoluto e autocentrato, i fatti dell’Afghanistan sono stati raccontati da sinistra e affrontati da destra.

Presumendo che questo “metodo” possa essere astratto e quindi formulato come una teoria e quindi applicato a questioni diverse, ammetteremmo che l’azione da “destra” trova giustificazione e legittimità anche grazie alla sensibilizzazione da “sinistra”.

Possiamo provare ad applicare questa teoria a Taranto e alla questione ILVA. I media nazionali hanno iniziato a parlare di Riva e dello stabilimento siderurgico a partire dallo scandalo dell’abbattimento dei capi di bestiame a causa dell’avvelenamento da diossina. In una sorta di effetto domino, a poco a poco l’argomento è stato sdoganato e la questione affrontata da più punti di vista. Testate che poco o nulla hanno a che fare con quelle generalmente sensibili agli argomenti ambientalisti, hanno iniziato a raccontare con un taglio particolare i fatti del siderurgico tarantino. Contemporaneamente il TAR ha dato via libera ad un referendum che, lungi dall’essere utile al futuro dei cittadini, ha tutte le caratteristiche di un’arma a doppio taglio, sia per la città che per l’amministrazione Stefàno. Tirando le somme, è possibile asserire che l’equazione ILVA uguale Male è stata sdoganata e un poco ufficializzata: questa è la sensibilizzazione da “sinistra”.

In un intervista ad un consigliere comunale di AN di Grottaglie, in occasione di un evento riguardo la discarica Ecolevante, venne fuori che il direttivo provinciale del partito di Fini aveva deciso che la questione ambientale a Taranto doveva divenire fondamentale nella loro politica. Il partito avrebbe dovuto iniziare ad occuparsi di inquinamento e ambiente e mettere queste questioni al centro del loro agire.

Questo avveniva in primavera.

In vista degli appuntamenti elettorali di questa primavera (le provinciali) e dell’anno venturo (le regionali) e dell’immagine della coalizione di centro destra a Taranto dopo il crack del comune e il successivo indebitamento, causato dalla gestione che definire criminale è poco delle giunte di quel colore, è plausibile pensare che, per risalire la china si sia scelto di cavalcare un argomento ampiamente condiviso come l’ambiente. Un argomento che può benissimo essere sfruttato non solo in provincia ma anche in tutta la regione, dato che Vendola è stato spesso attaccato dalle realtà ambientaliste perché le aspettative della “rivoluzione gentile” si sono dovute ridimensionare con il compromesso politico tra le forze della coalizione. L’ambiente e la sua salvaguardia sembrano un buon argomento per cercare di scalzare le giunte di centro-sinistra pugliesi.

Questo argomento non è facile da affrontare come sembra, dato che ad esso sono legati alcuni aspetti molto importanti, come quello dell’occupazione, se prendiamo ad esempio l’ILVA. Affermare che lo stabilimento deve chiudere perché le sue emissioni ammazzano, vuol dire affrontare un intervento a cuore aperto con il machete. Oppure, se affrontiamo questo da un punto di vista di dibattito politico, significa raccontare la diossina con gli strumenti della propaganda, perché si usa un argomento pienamente condiviso come la diossina che uccide proponendo una soluzione che a prima vista può sembrare naturale, la chiusura dell’acciaieria, tralasciando un importante effetto collaterale, l’occupazione.

Ecco che la teoria dedotta dall’affare Afghanistan inizia, in maniera induttiva, a calzare all’affare ILVA: sfruttare un argomento condiviso per proporre una soluzione propagandistica e inattuabile in realtà, se non con gravi perdite dal lato del diritto al lavoro, in modo da ottenere un consenso politico tale da vincere elezioni che altrimenti andrebbero sicuramente perse, dato il curriculum che la coalizione di centro-destra ha accumulato in Puglia, e in particolare, a Taranto in questi anni.

Questa fase è ancora quella della sensibilizzazione da “sinistra” ed è probabile che ad essa seguirà un’azione da “destra”. Ma non è necessario che questo accada, ma è importante una riflessione, da parte di chi è sempre stato in prima linea su queste questioni.

Dubitare deve essere legittimo e si deve fare anche in un momento di euforia. Essere vigili, questa è la soluzione, presidiare sempre e non lasciarsi intrappolare dalla terribile propaganda che promette di togliere i veli con le picchiate dei cacciabombardieri.