Conversazione su Martina Franca con Mario Desiati: il dialetto, la provincia, le convenzioni e i film porno al Bellini

Intervista esclusiva con Mario Desiati (pubblicata su Extramagazine il 12/12/2008)

Si dice che non si ha una visione pertinente delle cose se non si è ad una distanza giusta. Non bisogna essere né troppo vicini né troppo lontani. È una regola che vale per qualsiasi cosa: la giusta distanza. Se si dovesse parlare di un luogo, una città, una realtà, l’opinione di un suo abitante non è oggettiva, perché è troppo vicino, com’è troppo lontano lo sguardo di un estraneo. La giusta distanza sarebbe un suo abitante che non abita più. Mario Desiati incarna perfettamente la giusta distanza per parlare un po’ di Martina Franca, che è anche la protagonista del suo ultimo libro.

La prima cosa che si nota scorrendo le pagine de “Il paese delle spose infelici” è il massiccio uso del dialetto.

desiati Il dialetto del romanzo è un dialetto reinventato, molto più addolcito rispetto a quello della realtà, un dialetto simile a quello che parlavano i ragazzi martinesi degli anni Novanta. Ho aggiunto qualche vocale per renderlo più comprensibile a lettori e traduttori. Ma è così, spietato, duro, con un suo lato oscuro.

Cosa intendi per “lato oscuro”?

È come se questo dialetto, con le sue consonanti talmente chiuse, rifletta una parte del carattere chiuso dei martinesi.

Un carattere che è entrato nelle narrazioni popolari facendo paragonare i martinesi alla pietra con cui sono costruite le loro case. È possibile secondo te che una città possa avere un suo animo, tanto da influenzare le persone che vi abitano? Oppure, mettiamola in un modo più misterico, è possibile che ci sia una “maledizione” che grava su Martina e i martinesi?

È un’ipotesi suggestiva, ma Martina ha gli artigli come la Praga di Kafka, ti tiene stretto, se vai via ti graffia: quando vai via ti restano i segni addosso, nella testa, nel cuore e sul corpo. Sono ferite che fanno male soprattutto quando si torna, quando ci si rende conto dei cambiamenti, di cui chi ci sta dentro non ne percepisce la profondità.

E probabilmente non lo percepisce affatto. I protagonisti del libro, Veleno e Zazà (i protagonisti del romanzo, ndr ), cercano un riscatto. Un riscatto che è la felicità minuta, che consiste nel giocare in un campo d’erba, nell’odore di prato come quello del Tursi o dello Jacovone che verrà sentito una sola volta e ricordato per sempre.

Sembrerebbe poco…

Loro non sono ancora corrotti dal mondo circostante che gli obbliga a cercare altri tipi di felicità. Veleno e Zazà sognano nel calcio uno sfogo nel male di provincia, dove la vita sembra obbligarti a un certo percorso e simbolicamente uno di questi traguardi è il matrimonio. Percepire la diversità dal contesto senza che questa sia tollerata è allora un momento di squilibrio e infelicità. Il sudore e la rabbia che si mettono in campo prima e nel tifo dopo, è l’apparente via d’uscita del duo.

Una provincia che ti obbliga a seguire un determinato percorso: o accetti le convenzioni o quella è la porta.

C’è provincia e provincia: c’è anche una provincia a Roma e Milano che sono le uniche metropoli italiane, un luogo dove ci si conosce tutti e si seguono le stesse convenzioni d’un paese.

Se scendiamo invece nel caso che ci riguarda, è vero le convenzioni esistono, ma tutto sta a esserne coscienti e proprio il villaggio globale a volte bombarda con il consumismo che corrompe i valori sani della provincia, ossia lentezza, sguardo, solidarietà.

Nel libro traspare una sorta di “horror vacui”, che è un elemento comune ad alcuni scrittori meridionali, tipo Bodini. Una paura del vuoto che distorce la percezione, quasi. A cosa è dovuta secondo te?

Credo che nella periferia, nella provincia, si avverta di più questo horror vacui che forse è semplicemente un dare senso e corpo alla solitudine. Non è un orrore esistenziale la solitudine della provincia secondo me, ma una condizione, la soluzione è autenticità, vivere essendo se stessi, senza rinunce alla propria personalità.

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Passiamo ad un argomento più leggero. Parliamo del Bellini: un luogo storico della città, come anche tu sostieni nel tuo libro, che è stato abbattuto per fare appartamenti. Le voci di dissenso sono state

pochissime e nulli i risultati.

Il cinema Bellini, pur non essendo un vero monumento, è stato un feticcio della mia generazione. Il cinema proibito, metafora di una zona rossa, luogo impenetrabile. Gli anni delle locandine oscene con la gente che aspettava davanti al Bar Ducale il momento dell’arrivo del nuovo film, restano uno dei momenti più comici della presunta Martina bene degli anni Ottanta. Tutti si ritrovavano davanti al Bellini per sbaglio come quando tutti guardavano il film osè su AT6 per sbaglio, salvo poi essere dettagliati nella descrizione delle scene. Insomma essere bambini a Martina è stato molto bello e divertente anche per quel fantastico “equivoco” che era un cinema porno nel centro pulsante della città.

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