Le scarpe di Tricase

La lunga crisi della Adelchi, stabilimento di eccellenza nella produzione di scarpe. Esternalizzazioni e licenziamenti hanno soffocato la fabbrica. I lavoratori, però, ora non accettano di rimanere a casa e fondano una cooperativa. Per continuare a produrre

(Pubblicato su Carta n 42 del 27/11/2009)

La fabbrica Adelchi

Per farsi un’idea di dove è Tricase bisogna tener presente che la più vicina stazione delle Ferrovie dello Stato è a non meno di cinquanta chilometri. Per arrivare a Lecce bisogna prendere un treno locale fino a Zollino e poi aspettare la coincidenza per il capoluogo salentino. Tricase è uno dei novantanove comuni disposti a triangolo tra lo Jonio e l’Adriatico, più vicini all’Albania che a Bari. Chilometri  e chilometri di strade veloci che innervano una vasta pianura, da sempre adibita alla coltivazione di olive e tabacco. E prima che all’inizio degli anni ottanta si affacciassero le industrie calzaturiere, prima la Filanto e poi Adelchi, le alternative erano lavorare allu tabaccu o emigrare.

Ora queste due grandi industrie, che tra lavoratori diretti e indotto davano da lavoro a più di diecimila persone, si sono ridotte all’ombra di loro stesse, schiacciate dalla crisi e dalle scelte di delocalizzazione. Non sono le aziende a morire, esse sopravvivono rigogliose in Albania, in Etiopia o in Bangladesh, ma è tutto quello che sta loro intorno. I capannoni di Tricase sono vuoti, enormi cattedrali abbandonate nella pianura salentina.

Gli operai dell’Adelchi un mese fa riuscirono ad ottenere gli onori della cronaca per la loro lotta contro la disoccupazione. Occuparono il tetto di palazzo Gallone, il municipio tricasino e per quindici giorni vissero appoggiati ad un cornicione aspettando di ottenere delle risposte. Un loro compagno faceva il “vivandiere”, si occupava di portar loro da mangiare, e per andare in bagno dovevano essere scortati da un vigile urbano. Poi hanno occupato la fabbrica e adesso sono tutti in attesa di sapere se gli accordi sottoscritti a ottobre verranno rispettati. Accordi che a loro non piacciono, perché prevedono il reintegro di sole novanta persone, su un totale di più di seicento lavoratori. Per questo motivo ce l’hanno a morte con i sindacati, che invece di difendere il posto di lavoro, dicono loro, fanno accordi col padrone. «Le cose non stanno proprio così» ci dice Giuseppe Guagnano, segretario generale della Filtea Cgil Lecce, «l’accordo firmato il 7 ottobre in Regione sembra roba da poco, ma in realtà ha l’obiettivo di verificare le reali intenzioni dell’azienda, se vuole davvero sopravvivere. Nel frattempo abbiamo tentato di mediare, di non rischiare che la corda si spezzi, perché in questo momento è importante garantire gli ammortizzatori sociali ai lavoratori, prendere tempo affinchè si sblocchino i venti milioni di euro dei progetti approvati dal Ministero il primo aprile 2008 ma bloccati da Fitto con la scusa che era propaganda elettorale. Venti milioni di euro più venti milioni promessi dalla Regione. Riqualificare il basso Salento unendo le vocazioni del territorio, cioè agricoltura, turismo e manifatturiero con i progetti di sviluppo regionali, in particolare le energie alternative. Ma puntando sempre alla qualità del prodotto e all’eticità della produzione». Guagnano ha le idee chiare, eppure i lavoratori solo a nominare il termine “sindacato”, storcono la faccia e borbottano. Non si fidano, sono convinti che faccia il gioco del padrone. Eppure sono tutti tesserati, la maggior parte autonomi, Filtac e Cisal, sindacati di destra, su cui in paese si racconta altro, che riuscivano a tesserare le persone prima che entrassero a lavorare. Sindacati con cui i confederali hanno ufficialmente rotto, dopo l’accordo del 7 ottobre «a cui erano favorevoli anche loro, a Bari, ma nel tragitto fino a Tricase chissà perché cambiarono idea, e alzarono il tiro, raccogliendo naturalmente il favore dei lavoratori» dice il segretario della Filtea, che continua «così non si va da nessuna parte, si rischia solo di mettere definitivamente in ginocchio un’azienda già piena di debiti». Un’azienda che ai tempi d’oro, fino al 2002, era sinonimo di lavoro. Quaggiù venivano prodotte tutte le settantadue parti di cui è composta una scarpa, dai lacci fino alle scatole. «Nel 1997 – 98 iniziarono le prime esternalizzazioni» racconta Lory, un’operaia, «in Albania si aprì una fabbrica che produceva le tomaie, la parte superiore delle scarpe, che poi veniva portata qui e cucita sulle suole. Poi però è venuta la guerra e il capannone albanese è stato bruciato. Il titolare aveva commesse importanti e ha assunto qui altri ottocento lavoratori, finchè in Albania non è tornata la calma. Poi di nuovo a casa». Commesse importanti, Bata, Rinascente, Deichmann, Clarks. Una catena di montaggio che comprendeva Crc, Gsc Plast, Nuova Adelchi, Knk Magna Grecia. Diversi nomi per la stessa azienda, in un gioco di scatole cinesi teso ad approfittare di finanziamenti pubblici, come la famosa legge 488. Lavoratori licenziati e assunti il giorno dopo da aziende intestate a parenti o persone vicine a Adelchi Sergio, come racconta Michele Frascaro, giornalista de L’Impaziente, una rivista salentina che da sempre si occupa della questione: «La cosa assurda è che dal 2002 il gruppo dichiara la crisi, ma poi aprono queste nuove aziende che hanno come unico committente l’Adelchi».  Dal 2002 è stato un dissanguarsi di lavoratori. Dai più dei duemila dei tempi migliori, si è rimasti in seicento. Adelchi non significa più lavoro come una volta. Una volta si lasciava la scuola per andare a lavorare. «Una volta si era stupidi, si smetteva di studiare per andare lì» racconta Vito, «io ho lasciato la scuola al terzo anno delle superiori. Ma ero bravo. I professori vennero a casa mia per convincermi a rimanere fino al quinto almeno. Ma avevo già deciso. Entrai in fabbrica a dicembre del 1996. E ora sto studiando da privatista per diplomarmi».

Il presidio permanente degli operai in piazza

Incontriamo Vito in piazza Pisanelli, davanti al presidio permanente dei lavoratori, di fronte a quel palazzo Gallone che li ha resi famosi. Insieme ad altri operai,  si sono dati appuntamento per andare all’iniziativa di Rifondazione Salento “Lavoratorio Adelchi”, tre giorni di dibattiti sulla crisi, le sue motivazioni e le sue soluzioni. «Contiamo di far scaturire dal dibattito tra gli operai, un’idea efficace per uscire da questa situazione» afferma Boris Tremolizzo, il giovane segretario provinciale del PRC. Una vita da segretario di circolo, al congresso ha votato Vendola ma non era d’accordo con la scissione. «Anni di egemonia culturale di destra ha allontanato i lavoratori dalla comprensione della loro condizione, quella coscienza di classe di cui si parlava decenni fa. Lentamente noi cerchiamo di ragionare, di far passare alcune idee. È quello che ci aspettiamo da questi tre giorni»

Un momento dell'incontro di gioverdì - in primo piano, al centro, Marco Barbieri e Rosa Rinaldi

L’incontro di sabato, l’Open Space Tecnology (OST), ha visto la partecipazione degli operai, dei cittadini, di docenti e studenti universitari, di persone interessate. Attraverso l’attività di sei gruppi di lavoro è scaturita la proposta di mettere su una cooperativa di produzione di scarpe. Ci dice Boris: «L’unico capitale che hanno a disposizione gli operai è la propria professionalità, la competenza tecnica per fare un prodotto di qualità. Il progetto è quello di raccogliere commesse esterne che cerchino in primo luogo la qualità del prodotto, che nessuna esternalizzazione può garantire, per adesso. Contemporaneamente lavorare ad un prodotto proprio, una linea di scarpe pensata dal territorio, disegnata dai bambini delle scuole, studiata dagli studenti universitari, messa a punto dai tecnici della fabbrica, da diffondere attraverso una rete di mutualità. L’unico modo per uscire dalla crisi e farlo tutti insieme».

0 thoughts on “Le scarpe di Tricase

  1. Bellissimo!
    Un esempio concreto di come è possibile uscire dalla crisi(per nulla lasciata alle spalle) tutti insieme..
    Un esempio di come i bambini possono essere parte integrante della cittadinanza.
    E’ bello leggere il coraggio di persone che sono ancora disposte a mettersi in gioco, tutti insieme e da figlia di un uomo attualmente in cassa integrazione, unico lavoratore della famiglia è un segnale forte, un esempio di speranza e un grandissimo incoraggiamento.

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