I mandanti della strage di Filandari

Mi viene da iniziare con: “io so ed ho le prove”, ma è una frase abusata ultimamente. Eppure non trovo attacco più adatto per tentare di raccontare cosa è successo in Calabria, Filandari, in provincia di Vibo Valentia, nel tardo pomeriggio di lunedì scorso.

Una famiglia sterminata da un’altra famiglia per motivi di terra, per la “roba”, come si sono affrettati a dire alcuni commentatori, facendo sfoggio di cultura verista. Una notizia che fa notizia perchè il mandante questa volta non è un boss di qualche ‘ndrina, ma un capofamiglia qualsiasi che decide di punire/vendicarsi di quei vicini che si approfittavano della sua terra per far pascolare le vacche o le pecore.

Un problema di attaccamento alle proprie cose, il risultato della cultura familistica del sud profondo, della Calabria Saudita, come ci ha prontamente ricordato Libero, un problema di struttura più che di contenuto, qualcosa che arriva dalla radice profonda del calabrese. Mi sorprende, a dirla tutta, che nessuno abbia tirato in ballo l’atavica lotta degli allevatori contro gli agricoltori e viceversa.

Eppure, c’è qualcosa che non mi quadra.

Non mi quadra la faciloneria con cui si bolla tutto come un problema culturale e quindi non malavitoso, un problema endemico, congenito del sud più profondo, la leggerezza con cui si bolla tutto con: da quelle parti si usa così, che ci vuoi fa’?

Non quadra.

Non quadra perchè avrebbe senso se Filandari fosse un’isola spersa nel mar dei Sargassi, se fosse un satellite sperduto di Urano, se fosse in una grotta di un cratere di Marte.

Filandari invece è un paese in provincia di Vibo Valentia, in Calabria, nell’Italia dei 150 anni, nell’Europa dell’Euro, nell’anno del Signore 2010 (quasi 2011). Filandari è qui e ora, appartenente allo stesso mondo di Nespoli, dell’astronauta che scatta dallo spazio una foto che riprende le mille luci dello Stivale nelle notti natalizie.

Non quadra, per niente, che i maschi della famiglia Fontana siano stati levati dalla faccia della terra per l’arcaico attaccamento alla “roba”, che lava le offese col sangue, che risolve i problemi col calibro 9, che mette pietre a forma di croce sopra le discussioni.

La cultura, ci insegnavano all’università, è il risultato dell’ambiente umano, del contesto sociale, del paesaggio geografico. La cultura dipende dai riti che ci tramandiamo da padre in figlio all’ultimo libro letto, dal Tg di Minzolini ai programmi di Fazio. Nel mondo 2.0, mentre Wikileaks abbatte le frontiere del segreto diplomatico, sui monti calabresi si ammazza ancora per un ramo spezzato. Non quadra.

Non quadra a meno chè non ci allontaniamo dal livello locale e proviamo ad alzare lo sguardo. Ci accorgiamo allora che queste cose trovano fondamento in un sistema che, a diversi livelli, legittima l’essere con la quantità dell’avere, che definisce di successo un uomo con il SUV e una velina abboccata tra le sue gambe. Un sistema che arricchisce la criminalità organizzata grazie ai suoi vizi. E non viceversa.

Ad un livello più alto, senza arrivare alle altezze della stazione spaziale MIR, ci accorgiamo che alcune affermazioni, alcune parole, alcune frasi, sembrano ripetute più per sentito dire che perchè si abbia davvero contezza del significato. Quando si dice che lo Stato è lontano da questi luoghi (da Filandari, ma anche dalle strade della periferia di Andria, o dalle parti di Terzigno) si nomina il colpevole senza rendersene conto.

Sono i cittadini ad essere lontani dallo Stato o è lo Stato ad essere lontano dai cittadini?

Le due affermazioni non godono della proprietà commutativa: se le istituzioni (scuola, municipio, sanità, etc etc) sono percepite come distanti, vuol dire che, al netto delle motivazioni, esse lo sono davvero, perchè in una società di diritto non ci dovrebbero essere figli minori.

Eppure questo accade e sempre di meno ce ne scandalizziamo. Forse perchè siamo stati educati attraverso grandi opere di narrazione collettiva che se a Filandari una famiglia uccide un’altra è normale, perchè siamo nel meridione della monnezza e della camorra, del malaffare, della malasanità diffusa, della corruzione. Un Sud i cui cittadini sono vittime della Storia e non protagonisti, in cui il morso della taranta si è tramutato in qualcosa di più profondo, in cui le modalità di esserci seguono ancora schemi mentali medievali.

Dire che la strage di Vibo Valentia è un regolamento di conti tra due famiglie meridionali attaccate alla “roba” e lontane dal “diritto”, vuol dire contribuire a diffondere il meme (qui il significato della parola, e qui un esempio del loro potere) del Sud arretrato e medievale, brutale, animale, un modo di pensare razzista che non fa altro che legittimare comportamenti simili. Dire della strage di Vibo che accade perchè al Sud si usa così, vuol dire ammettere lombrosianamente che i meridionali sono diversi dagli altri, vuol dire ammettere che la “natura” degli uni è diversa da quella degli altri. In sintesi, significa essere razzisti.

Non ci sono leggi della terra, usanze tramandate di padre in figlio, nelle terre del sud dove “ci sono più pistole che forchette” queste cose accadono perchè lo Stato è assente, o quando c’è è corrotto e malaffarista, uno Stato i cui poteri forti collidono con le cupole mafiose, che tratta i cittadini come sacche di votanti, che si scandalizza se si ammazza, salvo poi proteggere le mani degli assassini, perchè, in fondo si è complici. Una questione di classe, in sintesi, in cui gli ultimi si ammazzano con i penultimi solo per divertimento dei primi che campano vampirizzando chi sta sotto di loro. I mandanti della strage di Vibo siamo noi meridionali che permettiamo che di noi si parli ancora in questo modo.